Nelle ultime settimane ho conosciuto, a Milano, per un progetto di lavoro, diversi ragazzi immigrati dall’Africa. Ho parlato con loro per ore e voglio raccontare chi sono senza dare voti. Sekou ha compiuto 18 anni da un mese, suo padre era un veterinario a Bamako, la capitale del Mali, ed è morto quattro anni fa per la malaria. Sekou è fuggito perché lo zio, dopo la morte del fratello, lo minacciava con pratiche voodoo per impossessarsi delle mucche di famiglia. Dopo una violenta lite che l’ha mandato in ospedale, è stata la madre di Sekou a consigliargli di andarsene. Dunque il ragazzo sale su un furgone militare con qualche biscotto in tasca, viaggia per un paio di giorni, arriva in Algeria, dove, nella provincia di Ghardaia, trova lavoro in un giardino di aranci: «Parlavo da solo, soffrivo, ero piccolo», ricorda. Ricomincia a fuggire, con un coetaneo senegalese, Usman, quando si sparge la voce che il governo algerino vuole cacciare gli stranieri.
Usman gli dice: «Proviamo ad andare in Libia». A Tripoli finiscono in un campo profughi dove minacciano e torturano con il consenso della polizia. Sekou si limita a dire: «Penso solo che io morto lì». I due ragazzi spendono il denaro guadagnato in Algeria per imbarcarsi verso l’Italia. Il 24 aprile 2017, dopo un viaggio di tre giorni e tre notti («il mare fa male, tanto freddo e paura»), arrivano in Calabria. Da lì vengono accompagnati in treno a Genova, dove rimangono otto mesi in una struttura per minori. A Milano Sekou viene preso in carico da una associazione, inserito nella cucina di un ristorante di Porta Romana, dove sotto il controllo di uno chef egiziano impara a preparare gli spaghetti all’amatriciana, le polpette, il baccalà. In pochi mesi diventa un bravissimo cuoco e raggiunta la maggiore età ottiene un permesso di residenza.
Papis è nato a Banjul, in una famiglia poverissima del Gambia. Sua madre è musulmana e vende pesce al mercato, il padre è cattolico e fa il sarto. A 14 anni Papis lascia la scuola, con tre amici sale su un autobus per andare a fare il muratore o il sarto in Mali. Trova un lavoro in una sartoria, dove sta seduto davanti a una macchina da cucire per nove ore al giorno. In cinque mesi incassa mille euro, che in parte manda ai genitori. Gli dicono che in Italia si guadagna meglio, dunque una mattina con l’amico Abdul sale su un camion e dopo venti giorni di viaggio penoso arriva a Tripoli. Passa le giornate con Abdul caricandosi sulla schiena pesanti sacchi di cemento e dormendo per terra in un capannone pigiato tra 40 ragazzi. «I libici sono violentissimi, trattano male, picchiano se no lavori bene e veloce…». Dall’Italia ricevono dei soldi da parenti di Abdul e così riescono a imbarcarsi dopo aver dormito su un marciapiede del porto per diverse notti. È un bel ragazzo, alto, con un sorriso smagliante, Papis. Adesso compera accendini e bracciali di cotone alla Stazione Centrale e li rivende a Lambrate, mentre va a seguire i corsi serali di italiano in un altro quartiere.
Bassirou è arrivato a Parigi in aereo dalla Guinea: rimasto orfano, dai 13 anni ha lavorato nei mercati del suo paese commerciando verdura e frutta dal Senegal, ma a un certo punto ha pagato un visto a dei trafficanti, che gli hanno procurato un biglietto con la promessa che due uomini lo avrebbero accolto a Orly per farlo lavorare in Francia. In aeroporto però non c’è nessuno ad aspettarlo, riesce a raggiungere la Gare de Lyon grazie all’aiuto di un uomo congolese, che vedendolo sperduto lo accoglie a casa sua per una settimana: «Non sapevo dove sono nel mondo». Bassirou, che intanto ha 17 anni, decide di dirigersi verso Brescia, dove dovrebbe avere dei parenti: i sedicenti cugini gli consigliano di andare a raccogliere pomodori dalle parti di Foggia: lavorerà in campagna da schiavo pagato a cassetta, dormendo nelle baracche, senza acqua e con poco cibo. Scappa con un amico a Roma, una città sconosciuta in cui si perde, dorme per settimane alla Stazione Termini finché viene aiutato da Save the Children: trova riparo in una casa e comincia a lavorare. Prima nei magazzini dell’Ikea e poi nella sicurezza di alcuni negozi di abbigliamento. Ma Bassirou parla il francese e impara velocemente l’italiano, conosce anche diverse lingue africane, il mandinka, il pulaar, il bambara, il wolof: diventa utile come interprete tra le autorità italiane e i migranti neri. Oggi lavora per i tribunali, è stato scelto come attore in un film di Daniele Gaglianone. Ha passato qualche giorno da pascià in un albergo di Venezia durante la Biennale. Non ancora maggiorenni, questi tre ragazzi hanno già biografie non immaginabili neanche per un settantenne europeo. Più tragiche ma certamente più interessanti: conoscono il dolore, la morte, la fatica, la paura. Combattono tutti i giorni per sopravvivere e migliorare. La speranza, la volontà, il sacrificio e la forza morale di cui dispongono sono esempi straordinari per i loro coetanei.