Tre personaggi mandano a dire

/ 11.02.2019
di Ovidio Biffi

Una regina, uno scrittore e un leader politico. Gli ultimi due già defunti da tanto tempo, la regina invece se la spassa alla grande dall’alto delle sue 92 primavere. Idealmente convochiamo il terzetto per commentare alcuni degli argomenti politici più delicati e pregnanti che l’avvio dell’anno ha registrato. Il primo apporto è quello di Elisabetta Il, sovrana del popolo britannico. Era stata criticata, e non solo dai laburisti, per il suo discorso natalizio un po’ troppo blando, in particolare riguardo al problema più lacerante che i suoi sudditi stanno cercando di risolvere, cioè la Brexit. Non basta chiedere «comprensione reciproca» quando ci sono differenze molto profonde, non risolve nulla consigliare di «trattare le altre persone con rispetto, come esseri umani quanto noi, è sempre un primo passo per una comprensione più grande». Questa eccessiva neutralità della regina rinviava la risposta alla domanda di fondo: Elisabetta Il è pro o contro la Brexit? Tanto più che – come rivelano i tabloids – in caso di «hard Brexit» e disordini civili, secondo piani segreti regina e reali verrebbero trasferiti in luoghi sicuri. Questo perché lei continua a incarnare, anche nel Terzo millennio, un ruolo essenziale nel processo legislativo britannico e idealmente rimane un riferimento, se non una consigliera, per tutte le forze politiche e i vari parlamenti che il Regno unito riunisce. Confermando una sempre viva osservanza dei suoi doveri, «The Queen» ha approfittato del discorso per il centenario della Womens’s lnstitute per aggiustare il tiro. Lo ha fatto dicendo che, anche nell’era moderna, per favorire nuove risposte, lei privilegia le ricette provate e sicure, come «rispettare i diversi punti di vista, cercare di trovare un terreno comune, e non perdere mai di vista lo scenario più ampio. Per me questo approccio è senza tempo, e lo raccomando a tutti». Forse è solo un caso, ma pochi giorni dopo Teresa May chiedeva aiuto al leader laburista Corbyn....

Anni fa, quando la Brexit muoveva i primi passi e Trump giungeva alla Casa Bianca, il settimanale «The Economist» bollò il populismo con questa sentenza: «If you elect a clown, expect a circus» (se eleggete un pagliaccio, aspettatevi uno spettacolo da circo). Il giudizio sarebbe piaciuto a Ennio Flaiano, lo scrittore del nostro terzetto, visto che oggi illustra perfettamente la situazione politica sempre più aggrovigliata e indecifrabile dell’Italia. L’alleanza tra Lega e M5s che governa il Bel Paese miscelando un bizzarro cocktail fatto di conquista del potere e di marcia verso una democrazia «digitale» propone ogni giorno nuovi clown nel suo circo: dai ministri sprovveduti o inebetiti; ai vice premier impegnati – mentre il premier balla con i grandi – a creare paraventi mediatici, incuranti del pericolo che i vuoti creati da illusioni e falsità favoriscano nostalgici ritorni. Fosse ancora vivo, Flaiano non esiterebbe ad allarmare i suoi connazionali con un caustico monito («Il fascismo conviene agli italiani perché è nella loro natura e racchiude le loro aspirazioni, esalta i loro odî, rassicura la loro inferiorità») e questo attualissimo auspicio: «Vorrei soltanto che Dio, o chi ne fa le veci, tenga lontano da questo paese un sistema politico che ci costringa daccapo a credere, a obbedire e a combattere, o a essere “migliori” di quello che siamo, che in altre parole ci conservi la libertà, anche se questa è una parola che ci fa ridere». L’ultimo personaggio del terzetto è l’ex-premier svedese Olof Palme. Gli affido la conclusione per contrastare il solito «j’accuse» giunto da un rapporto anti-Davos, cioè anti-Wef e anti-liberista: «Sessantadue supermiliardari hanno accumulato la stessa ricchezza di 3,75 miliardi di persone, la metà più povera della popolazione mondiale». È la sintesi del comunicato con cui l’Oxfam, la Ong britannica legata all’Onu che propugna lo sviluppo equo e sostenibile, ha voluto monopolizzare l’attenzione mediatica prima e durante il summit di Davos. Come già l’anno scorso, sono bastate poche verifiche per capire che le cose non stanno proprio così. Infatti, ballando con i dati pur di lanciare numeri sconvolgenti (otto individui contro 3,75 miliardi) l’Oxfam sorvola beatamente su evidenze che contrastano con le sue tesi pre-confezionate; nell’epoca della globalizzazione, quindi tra l’avvio nel 1990 e il 2016 (anno preso in esame dalle ultime statistiche), la quota delle persone in condizioni di povertà estrema, a livello globale, è crollata dal 43 ai 21 per cento. Il rapporto dell’Ong britannica mirava a rilanciare un’imposizione fiscale più elevata sulle ricchezze dei supermiliardari, una chimera che mi ha ricordato un famoso giudizio del premier svedese assassinato: «La sinistra non deve far piangere i ricchi, ma deve far sorridere i più poveri». Parole attualissime per spiegare non solo i bersagli errati dell’Oxfam, ma, indirettamente, anche la crisi delle sinistre e perché il populismo sia appannaggio solo (o quasi) delle destre.