Ticino, terra di musei

/ 17.10.2016
di Orazio Martinetti

La nuova sede per il Museo cantonale di storia naturale fa gola. Sei le candidature al vaglio: Balerna, Bellinzona, Claro, Lugano, Losone, Faido. Due città e quattro borghi, alcuni considerati discosti. Non sarà facile, per le commissioni preposte, scegliere l’ubicazione, soppesare vantaggi e inconvenienti, confrontare vie d’accesso, spazi e vani eccetera. Come spiegare tale interesse, anzi tale fervore? La prima ragione è del tutto pratica. Alcuni comuni hanno necessità di riutilizzare/riconvertire edifici fatiscenti o aree semi-abbandonate: caserme, macelli, alberghi. Costruzioni voluminose, impegnative, che se non riqualificate diventeranno presto carcasse nel territorio, scheletri spettrali, altri eco-mostri da aggiungere alla già assai lunga lista dei siti invasi dai rovi e dai graffiti.

Un primo requisito da soddisfare potrebbe essere il seguente: non sacrificare terreni pregiati, come spesso si è fatto anche nel campo dell’edilizia scolastica, ma puntare sul recupero di strutture esistenti. Già questo sarebbe un primo, vero omaggio all’ambiente. Un nuovo manufatto in cemento armato per celebrare le meraviglie della natura non avrebbe senso. Sarebbe un cenotafio, non un altare all’ecologia. 

C’è poi la questione del pubblico. Sappiamo che i primi destinatari dell’iniziativa saranno le scolaresche; in secondo luogo i cittadini amanti della natura, i turisti e gli escursionisti che ancora vanno alla ricerca del «vecchio» Ticino fatto di pietre e di acque, di cascinali e di mulini, gli specialisti come i biologi, i botanici, i cultori delle specie rare. Un museo è fatto di pannelli, di teche, di stazioni multimediali (com’è d’obbligo oggi), ma anche di sentieri che portano fuori, all’aria aperta, nelle abetaie e nelle pietraie di alta quota. L’alunno, o il visitatore, deve poter calpestare il suolo, alzare lo sguardo verso l’alto, oppure scrutare il sottobosco con l’occhio dell’entomologo. 

Un museo dunque aperto, una piattaforma che vada oltre la «conservazione» e l’«esposizione» (pur necessarie) per stimolare – soprattutto negli ancor incolpevoli giovani – un raffronto tra il mondo naturale e il mondo artificiale, tra la natura incontaminata e la natura violentata. Un museo «diffuso», reticolare, che favorisca la scoperta più che la contemplazione: un intreccio di piste che incoraggino il cammino nella forma di un pellegrinaggio alpino tra monti e laghi, dal San Giorgio all’Adula, con tappa ad Acquacalda o al Centro di Biologia alpina di Cadagno. 

Già questo conseguirebbe un alto e lodevole compito educativo: quello della conoscenza, del rispetto e della tutela.

Per il momento l’attenzione è puntata sulla sede, per i motivi che abbiam detto. Ma prima o poi bisognerà riflettere sul «Konzept», il filo conduttore. Che in parte è già dato dai reperti esistenti conservati a Lugano, ma che in parte andrà ripensato alla luce delle più recenti acquisizioni della museotecnica.

L’idea di creare un «museo del territorio» era già stata affacciata dal governo nel 2004. Allora si prevedeva di dare una casa comune al patrimonio di due àmbiti strettamente imparentati: l’archeologia e la storia naturale. Già nel Rapporto sugli indirizzi del 2003 si era stabilita la finalità da conferire all’iniziativa: «lo sviluppo nel singolo e nella società della conoscenza del ruolo che l’uomo svolge all’interno del suo ambiente di vita e della consapevolezza dei valori di cui è depositario, con il compito di trasmetterli alle generazioni future».

Come si vede, un obiettivo nobile. Ma che nell’attuale modello di crescita fondato sull’immobiliare si sta allontanando sempre di più, fino a diventare un puntino all’orizzonte. Ritagliare uno spazio protetto, una nicchia, un’edicola incontaminata rischia di esercitare la funzione di un’isoletta dentro un magma di asfalto e cemento. 

Ma forse siamo troppo pessimisti. Se il nuovo Museo saprà risvegliare nelle giovani generazioni una sensibilità diversa da quella imperante nell’odierna «città-Ticino» sarà già un successo. C’è da augurarsi che il dibattito sia ampio e proficuo sia in campo architettonico (con in prima fila l’Accademia di Mendrisio), sia in campo latamente culturale. Perché la natura non è una collezione privata, ma la nostra placenta collettiva, il nostro habitat vitale.