Ticino: laboratorio di idee o fortino sotto assedio?

/ 09.01.2017
di Orazio Martinetti

L’immagine è quella di un rivellino medievale: un cuneo murato conficcato in Lombardia. Attraverso alcune porte sorvegliate transitano le auto dei meteci pendolari che al far della sera lasciano il perimetro fortificato. All’interno, in spazi angusti e sovraffollati, una piccola comunità lotta per la sua sopravvivenza. Due banchieri confabulano all’ombra della sede luganese della Banca della Svizzera italiana, mentre leghisti muniti di megafono sobillano la folla.

Così il mensile «Bilanz» ha raffigurato il Ticino nel numero di dicembre, sotto il titolo Il laboratorio di destra dalla Svizzera. Il servizio, pezzo forte dell’edizione, si prefigge di mettere in luce il ruolo originale che il cantone ha assunto negli ultimi anni, il suo essere precorritore-anticipatore di un modello che presto potrebbe estendersi a tutta la Confederazione. Quale modello? Beh, il disegno non lascia dubbi: quello imperniato sulla difesa ad oltranza dei confini domestici contro chi si accalca ai valichi, ossia frontalieri, profughi, migranti economici, emissari di Bruxelles, apostoli della libera circolazione, donne velate. «Il Ticino – scrive l’autrice del servizio Florence Vuichard – è un buon sismografo di possibili sviluppi, un laboratorio in cui i cambiamenti si manifestano prima che altrove; siamo quindi in presenza di un affidabile sistema di pre-allarme di cui il resto della Svizzera dovrebbe tener conto». Insomma, un’officina del populismo avanti lettera; un populismo, beninteso, «alla ticinese», in cui chi governa sta un po’ all’opposizione e chi contesta rimane aggrappato al carro delle élites dirigenti. Un doppio binario condiviso anche dalle famiglie altolocate e dalle cerchie intellettuali, tutte dedite – al di là degli screzi contingenti – alla collaudata pratica del nepotismo. D’altronde, spiega l’autrice, i trambusti politici di cui pullula la storia ticinese sono sempre nati come faide tra clan familiari, come rivalse per un appalto rifiutato, una spartizione negata, una cooptazione respinta.

Il Ticino dunque come «laboratorio della destra», destinato a far scuola oltre la catena alpina? Difficile fare previsioni in questo campo, perché i fattori imponderabili sono numerosi. Nessuno è in grado di sapere come evolverà l’Unione europea dopo le elezioni francesi, tedesche e probabilmente italiane in agenda quest’anno; nessuno sa predire come si comporterà la valuta comune. Ma soprattutto nessuno osa avanzare previsioni sull’efficienza della macchina economica, fondamentale per l’Europa ma soprattutto per il Ticino, alle prese con una pressione sul mercato del lavoro mai vista negli ultimi due secoli.

Il servizio di «Bilanz» non è però una requisitoria contro la «Tessiner Familie» fatta di cordate, connessioni, agganci ed entrature varie. C’è anche un Ticino che ha saputo scrollarsi di dosso i retaggi più ingombranti e varare iniziative promettenti nel campo del turismo e della formazione universitaria. Anche la piazza finanziaria, colpita al cuore, ha saputo rialzarsi e riprendersi parte delle postazioni perdute. Non solo banche e grotti, c’è dell’altro, c’è di più.

Ma quanto è pertinente la categoria di «laboratorio» per il caso ticinese? Qui è bene interrogarsi perché questa definizione implica un programma di ricerca in qualche modo coerente, basato su ipotesi, sperimentazioni e verifiche: un percorso non rintracciabile nel Ticino leghista degli ultimi due decenni. Anzi, l’impressione è semmai quella di una cacofonia generale, espressione di un’orchestra mal assortita, priva di direttore, solisti e persino di uno spartito. L’ultima «esibizione» dei musici granconsigliari, alla vigilia di Natale, ha risvegliato la platea soprattutto per le ripetute stecche e le persistenti distrazioni. Nei partiti si litiga senza sosta, con gravi conseguenze sulla «leadership», che difatti muta continuamente: nominato un presidente già si pensa al prossimo, in una spirale senza fine. A Berna un tempo si inviavano «rivendicazioni»; oggi si mandano «segnali». Il fatto è che le prime erano doglianze documentate, i secondi messaggi estemporanei, a volte contraddittori, frutto di sbalzi d’umore e accessi d’ira.

Potesse il Ticino diventare un vero laboratorio di cui andar fieri per l’originalità delle analisi e l’audacia delle proposte... Oggi è solo una cittadella assediata, intimorita, ingrugnita, ripiegata sul proprio ombelico. L’augurio che formuliamo per il 2017 è che la politica riesca ad interrompere questa corsa verso l’auto-avvitamento, che cessi di inseguire le emozioni del momento per elaborare un progetto credibile, solido e documentato. Qualche tentativo in tal senso è stato fatto, raccogliendo stima e consensi anche negli austeri, e severi, uffici bernesi.