Svizzera europea, Europa elvetica

/ 13.05.2019
di Orazio Martinetti

Il rinnovo del parlamento europeo è alle porte. I sondaggisti sono ormai all’opera da mesi; gli esiti di ogni consultazione nazionale (l’ultima in Spagna) e perfino regionale vengono subito proiettati sulla scala continentale, per capire quali spostamenti potrebbero verificarsi nell’emiciclo di Strasburgo. I fautori dell’europeismo temono la fine dell’asse centrista (formato da popolari e socialdemocratici) che storicamente ha voluto, consolidato e via via esteso la Comunità, oggi Unione. L’insidia maggiore proviene dal fianco destro dello schieramento politico, ossia dai partiti nazional-sovranisti: formazioni color cenere in cui confluiscono risentimenti, umori xenofobi, mai sradicate nostalgie per autocrazie e regimi dittatoriali. Questi gruppi vorrebbero, come dicono, «cambiare tutto». Trasformare il sordo e grigio europarlamento in un bivacco di manipoli? Abolire l’euro? Ridurre l’Unione ad una semplice area di libero scambio?

Tutti auspicano il cambiamento, o perlomeno un’energica sterzata. Questa UE, così com’è cresciuta negli ultimi anni, non piace quasi a nessuno. Per gli uni è troppo invadente e liberticida, per gli altri inefficiente e distratta. Ma soprattutto alle istituzioni europee si muove il rimprovero di aver privilegiato la dimensione economica con un surplus di burocrazia a scapito della sfera sociale e culturale.

La questione è complicata. Nell’Ottocento tutte le unificazioni nazionali furono precedute dall’unificazione doganale («Zollverein»), cantoni della Repubblica Elvetica inclusi. Già nel redigere nel 1803 l’Atto di mediazione, Napoleone Bonaparte statuì che «gli antichi diritti di tratta e d’uscita sono aboliti. La libera circolazione delle derrate, bestiami, e mercanzie, è garantita. Non può essere stabilito nell’interno della Svizzera alcun diritto locale, d’entrata, di transito, o di dogana». Anche a sinistra si ritenne più opportuno partire dalla «struttura» che dalla «sovrastruttura», ossia dalla progressiva messa in comune degli accordi economici, commerciali e monetari. Certo, tale approccio suscitò già all’epoca del Trattato di Roma perplessità e dubbi. Era questa la strada migliore? Non era forse meglio capovolgere la prospettiva? «Se si dovesse rifare tutto da capo – disse ad un certo punto Jean Monnet – comincerei dalla cultura». Proposito nobile, ma forse non sufficiente, al di là dei programmi Erasmus, per costruire un vero edificio europeo e per neutralizzare i mai morti rigurgiti etno-nazionalistici.

E per finire un cenno ai rapporti Svizzera-UE, tuttora alla ricerca di un punto di equilibrio soddisfacente, in grado di resistere sia alle pressioni esterne, sia alle minacce interne. La nostra destra nazional-populista spera che dal voto di maggio l’Unione esca indebolita, meglio se paralizzata, così da non più poter costringere la Svizzera a recepire direttive come quella sulle armi. Il fatto è che nessuno sa dire quale via prenderà un’Unione meno salda sulle sue gambe, privata del suo asse storico, frammentata e lacerata da forti dissensi. L’esperienza insegna che una controparte coesa e riconoscibile è meglio di una pletora d’interlocutori in perpetuo disaccordo.

D’altro canto va ricordato che l’anti-europeismo oltrepassa, e di molto, i confini della destra. Fin dal dopoguerra la Confederazione si è aggrappata all’ideologia del «Sonderfall» pur di conservare le sue prerogative e le sue rendite di posizione. Non ha mai brillato nel sostenere, per esempio, le convenzioni internazionali per la difesa dei diritti dell’uomo o del fanciullo; ha sempre ratificato i documenti con ritardo o con riserva, adducendo ragioni di principio, quali la neutralità assoluta, o l’esclusione delle donne dalla vita politica. I più arditi, paventando l’isolamento, hanno pensato di promuovere la Svizzera a modello per gli erigendi Stati Uniti d’Europa. Insomma, un’Unione che avrebbe dovuto adottare le nostre istituzioni, il nostro sistema elettorale, il nostro federalismo basato sul rispetto delle minoranze. Ma come scrisse Jean-François Bergier, nelle sue «impertinenze di storico», è «assolutamente fuori luogo proporre la Svizzera come maestra – talvolta pedante, talaltra decisamente arrogante – di storia politica per l’Europa… la nostra esperienza sette volte secolare (ma con periodi di eclisse) può sì suggerire alcune idee, ma non certamente un modello. Non può esserlo neanche per altre nazioni multiculturali o plurietniche perché la ricetta valida per noi va bene per un bel prato all’inglese: seminare, rastrellare, innaffiare e aspettare trecento anni. La ricetta della pazienza, del tempo» (L’Europa e gli svizzeri, Giampiero Casagrande editore, 2000).