L’euforia di aprile è svanita in Sudan, il dittatore Omar el Bashir è caduto, è imprigionato, è comparso in pubblico una sola volta, vestito del suo consueto bianco, e l’aria di un uomo finito. Ma quel tonfo clamoroso accelerato da proteste durate mesi, pacifiche, danzanti e determinate, non ha portato a un cambiamento nel paese. Anzi, mentre il fascino per le ragazze che hanno animato le manifestazioni, moderne regine nubiane, svanisce nella nostra cronica disattenzione alle faccende internazionali, il regime sudanese si sta richiudendo su se stesso, con le sue divisioni ma con un’unica faccia da mostrare al popolo: quella del terrore.
Bashir è caduto perché i generali hanno deciso di scaricarlo, anche e soprattutto i suoi «fedelissimi»: i vertici militari del Sudan non sono una compagine unitaria, è stato lo stesso Bashir ad alimentare volontariamente le faide interne sperando così di scongiurare un golpe di palazzo. Il calcolo non gli è evidentemente riuscito: i generali si sono scoperti molto compatti nel cacciarlo. Poi però le faide hanno di nuovo avuto il sopravvento e alcuni segnali si sono visti anche fuori dal quartier generale della giunta militare che ora guida il Sudan: la piazza si è sentita protetta dall’esercito e ha visto fin dall’inizio con paura e sospetto l’arrivo nelle città delle Forze di supporto rapido, meglio note come «Janjaweed 2», la trasformazione cosmetica dei guerrieri a cavallo che hanno per anni devastato il Darfur, torturando, stuprando, uccidendo.
L’esito di questo scontro interno al regime è il più brutale: le Forze di supporto rapido hanno ammazzato all’inizio del mese più di cento manifestanti, i cadaveri galleggiavano nel Nilo (molti non si vedono, avevano dei pesi legati ai piedi nudi quando sono stati gettati dai ponti) e ora i sudanesi sono terrorizzati, le strade sono molto più vuote, ci sono ancora picchetti e piccole barricate ma il terrore è ovunque e nemmeno la nascita di una piccola stazione tv, «Sudan of tomorrow», che invita a non usare mai armi e a continuare a manifestare pacificamente ha calmato la paura (internet è bloccato, questa emittente è l’unico modo per darsi appuntamento per le proteste).
Il capo dei Janjaweed 2 è il nuovo uomo forte del Sudan. Si chiama Mohammed Hamdan Dagalo, detto Hemeti, e formalmente è il numero due della giunta militare, ma si comporta come se avesse già avuto un’investitura pubblica. Ha finto di voler ascoltare la piazza, ha detto ai giornalisti internazionali che lui le elezioni le avrebbe volute subito, cosa credete, ha lasciato che i negoziati tra regime e piazza collassassero – l’Associazione dei professionisti che fa le trattative vuole una maggioranza di membri civili nel governo di transizione – e poi ha dato il via alla repressione. Un blitz feroce ma non lungo, quanto basta per disperdere la determinazione delle proteste senza turbare troppo gli occidentali, che comunque hanno un’alta soglia di imperturbabilità. Infatti continuano a ignorare il fatto che il Sudan rischia di diventare un nuovo Yemen e che attorno al paese si sta creando un nuovo blocco di potere regionale: Hemeti ha ricevuto 3 miliardi di dollari da Egitto, Arabia Saudita ed Emirati arabi uniti, che vogliono mantenere «stabilità» in Sudan e che pensano che il generale-Janjaweed sia il più promettente per questo obiettivo.
Gli sponsor di Hemeti sanno che l’America tiene volentieri gli occhi chiusi e che l’Europa pur quando vede poi non riesce ad agire e mentre i sudanesi temono «di finire come l’Egitto», loro proprio a quello pensano, a un nuovo regime nell’indifferenza del resto del mondo. Il tempo, ormai lo sappiamo, gioca a loro favore: Hemeti sta consolidando il suo potere, sia dentro la giunta sia tra i sudanesi, essendo un grande oratore e un amante dei bagni di folla, e si è conquistato la fiducia dei suoi sponsor mandando i propri soldati a combattere con i sauditi in Yemen. C’è un rischio alto di guerra civile, ma Hemeti ha già dimostrato di avere dalla sua parte le forze più ubbidienti e senza scrupolo: l’esercito ancora conta su una ricomposizione con le manifestazioni, l’apparato dell’intelligence osserva e aspetta di schierarsi con i più forti, comunque entrambi non hanno troppe alternative allo strapotere di Hemeti. In nome della stabilità ormai si può fare qualsiasi cosa, c’è il presidente siriano solido nel suo palazzo a dimostrarlo, e i cani randagi nelle strade di Khartoum che hanno preso il posto del popolo sudanese, che non chiedeva chissà cosa: elezioni, un governo civile, un salto fuori dalla dittatura.