Speck, fagioli e il futuro delle nazioni

/ 10.06.2019
di Orazio Martinetti

Correva l’anno 1926. Lo scrittore Robert Walser, rimuginando tra un boccone e l’altro sulle relazioni internazionali, così riassunse il suo stato d’animo: «ieri, mangiando pancetta e fagioli, riflettevo sul futuro delle nazioni, un pensiero che mi è riuscito presto sgradito, perché mi ha rovinato l’appetito». In quell’anno l’Italia era già entrata nel quarto anno dell’era fascista, mentre la Germania cercava di spezzare una spirale inflativa diabolica, che bruciava i risparmi delle economie domestiche. La Svizzera, il paese di Walser, al termine della guerra si era proposta di scostarsi dalla neutralità assoluta per adottare una linea più aperta e collaborativa. Impresa non facile, che tuttavia Giuseppe Motta, alla testa del Dipartimento politico (oggi Dipartimento degli affari esteri), decise di far sua, incaricando il giurista Max Huber di redigere un rapporto che chiarisse oneri e obblighi della Confederazione nel nuovo ordine mondiale.

Il dibattito prese avvio nel 1919, coinvolgendo autorità federali e cantonali, la diplomazia e l’opinione pubblica. Come partecipare al riassetto continentale dopo il tramonto di quattro imperi secolari (Germania guglielmina, Austria-Ungheria, Impero ottomano, Russia zarista) e la comparsa sulla scena di un nuovo attore, i bolscevichi? Per Motta occorreva aprire un varco che rompesse lo stato d’assedio, e dunque adattare l’irrinunciabile principio della neutralità agli equilibri formatisi sulle macerie ancora fumanti della grande guerra. Proposito nobile ma tutt’altro che condiviso, e non soltanto dentro il Partito cattolico-conservatore in cui Motta militava. Alla fine il nodo fu sciolto dalle urne. Il 16 maggio 1920 l’adesione alla Società delle Nazioni fu approvata con un discreto 56,3% di consensi, una vittoria che però aveva portato in superficie un robusto fronte di contrari, presente soprattutto nella Svizzera tedesca, e in particolare nei piccoli cantoni rurali.

Comunque l’abbandono della neutralità assoluta a beneficio di una neutralità differenziata non fu mai totale e incondizionato. Molte le riserve e le eccezioni, come ad esempio la rinuncia a partecipare ad interventi armati o a sanzioni che prevedessero l’embargo economico. Fatto sta che questa posizione rimase sempre precaria e poco convinta, fino al ritorno alla neutralità integrale nel 1938.

Sorte non migliore ebbe l’organizzazione che nel 1945 raccolse l’eredità della Società delle Nazioni, ossia l’ONU. L’opposizione emersa nel 1920, aperta o strisciante, funzionò come antidoto ad ogni tentativo di apertura. Anzi, durante la guerra fredda la direzione degli affari esteri era considerata un’incombenza di secondaria importanza, da affidare all’ultimo eletto nel collegio governativo o alle personalità meno ambiziose. Come osserva il Cancelliere della Confederazione Walther Thurnherr nella sua introduzione al volume La Svizzera 2030 (77 interventi sui temi che la politica dovrà affrontare nel prossimo decennio), «il nostro sistema di governo, che si è dimostrato così valido in politica interna, mostra i suoi limiti nelle relazioni estere poiché le possibilità di rappresentare i propri interessi risultano ridotte». Detto altrimenti, il nostro paese ha trascurato nel tempo la creazione di canali che potessero rispondere con rapidità ed efficienza alle sollecitazioni provenienti da Bruxelles o dalle organizzazioni transnazionali.

Fatto sta che le questioni riguardanti le relazioni con il mondo esterno continuano a guastare la digestione di almeno metà degli svizzeri. È andata così nel 1992 sul decreto che prevedeva l’ingresso nello Spazio economico europeo (rifiutato con 50,3 per cento di no contro 49,7 di sì) e nel 2014 sull’iniziativa contro l’immigrazione di massa (accettata, stessa percentuale a fattori invertiti). Sono state votazioni che, come si è più volte osservato, hanno fatto emergere fratture multiple nel corpus della cittadinanza: quella tra città e campagna, tra distretti innovativi e aree più legate al mercato interno, tra élite e popolo, tra cosmopoliti e protezionisti, tra vecchi e giovani e in misura minore tra uomini e donne.

Le faglie sono una costante nelle vicende elvetiche, l’espressione plastica di spaccature interne che affondano le loro radici nelle differenze di mentalità, lingua, cultura, confessione religiosa. Tutti ricordano l’immagine del «Röstigraben», sintesi gastro-giornalistica del fossato riapertosi lungo la Sarine all’indomani del 1992. A questo divario storico si è poi aggiunto, ma con minore regolarità, il «Polentagraben» dei ticinesi (da ultimo sul possesso di armi). Insomma, pare proprio che le tradizioni culinarie si rivelino più efficaci di tanti raffinati studi politologici nel cogliere i diversi umori che percorrono il paese. Speck e fagioli nel piatto di Walser, polenta e funghi sulla tavola ticinese. E poi il mondo là fuori, irritante ed indigesto. Tanto da provocare spiacevoli reflussi gastrici.