Social non fa rima con privacy

/ 16.04.2018
di Peter Schiesser

È sincero, Mark Zuckerberg, quando davanti alle commissioni del Congresso si cosparge il capo di cenere, riconosce gli errori in prima persona, promette di ripararli ed evitarli in futuro, si dichiara favorevole ad una maggiore regolamentazione dell’uso dei dati personali degli utenti di internet, quando dichiara di essersi comportato da ingenuo di fronte alle manipolazioni di società come Cambridge Analytica e di «agitatori» russi durante la campagna per le presidenziali negli Stati Uniti? È davvero quell’idealista che vede in Facebook uno straordinario strumento per collegare persone, aziende, associazioni, creando grandi comunità (e Zuckerberg cita le mobilitazioni di massa e le raccolte di fondi sul suo social)?

Se è un bluff, ce ne accorgeremo presto: ad un altro scandalo come questo, Facebook potrebbe non sopravvivere. Alla vigilia delle audizioni circolava l’ipotesi che Facebook potesse essere smembrata, invece Zuckerberg è per ora riuscito ad ammansire le decine di parlamentari che lo hanno tartassato, giocando sull’idealismo e sulla vaghezza («il mio team vi fornirà volentieri i dettagli, se me lo chiedete» è stato uno dei suoi mantra - vedi anche Rampini a pag. 25). 

Tuttavia, rende un po’ sospetti che Zuckerberg tenda a dimenticare il fatto che Facebook è – anche? soprattutto? – una macchina per far soldi. Con i suoi oltre due miliardi di utenti, guadagna 35 centesimi per ogni dollaro incassato, 16 miliardi di dollari nel 2017. Con una ricetta molto semplice, ormai condivisa da tutti social: io ti regalo quello che ti serve, poi ti «vendo» a chi interessano i tuoi dati. 

Da tempo gli esperti mettono in guardia – se il prodotto è gratuito, il vero prodotto siamo noi – ma l’infatuazione con le illimitate possibilità di internet e della tecnologia (applicata alla matematica: pensiamo all’importanza degli algoritmi), ci ha accecati. In fondo, a parte gli inserzionisti pubblicitari, a chi potevano interessare i nostri banali dati personali? Poi sono arrivate le ondate di informazioni false ad opera della Russia, strutturate per influenzare le elezioni di diversi paesi occidentali, e quindi l’utilizzo improprio dei dati di 87 milioni di utenti di Facebook, in gran parte statunitensi, da parte di Cambridge Analytica (società finanziata dai Mercer, famiglia miliardaria ultraconservatrice e sostenitrice di Steve Bannon e Donald Trump) per fare arrivare i messaggi «giusti» agli elettori giusti e rovesciare, come in effetti avvenuto, l’esito del voto popolare grazie alla conquista di un maggiore numero di delegati. Si può essere idealisti e ingenui quanto si vuole, ma a questo punto non basta più. 

I critici di Facebook affermano che l’azienda di Zuckerberg non è in grado di autoregolarsi, perché è fondamentalmente una macchina programmata per raccogliere costantemente i dati di ognuno e poi rivenderli. Immaginare che voglia e riesca a mantenere segreti i dati che comunque raccoglierà è un’ingenua illusione. 

Ma quel che vale per Facebook vale per tutti i social media, per Google e tante altre società che applicano il principio del servizio gratuito in cambio dei dati personali. Come garantire allora maggiormente la privacy, se esiste ancora? Si potrebbe rovesciare l’assioma: restituire la sovranità assoluta sui dati agli utenti e far pagare un importo minimo per l’utilizzo dei social e di altri servizi sul web. Lo suggerisce per esempio il reporter del «Magazin» Hannes Grassegger (autore già nel 2016 di un lungo articolo su Cambridge Analytica). Ma questo vorrebbe dire decretare la morte economica di imprese come Facebook, Twitter, Instagram…: come raggiungo la persona giusta con l’inserzione giusta senza sapere chi sei?