Siria, focolaio di nuove guerre

/ 19.02.2018
di Peter Schiesser

Sette anni, 350-500mila morti, milioni di profughi in patria e all’estero più tardi, in Siria è sempre ancora guerra. Non una ma più guerre. Quella del dittatore Assad contro l’opposizione interna, quella dell’Occidente e della Russia contro l’Isis, quella dei russi per una presenza strategica nel Medio Oriente, quella dei turchi contro i curdi, ma anche quella dell’Iran contro Israele e per un’egemonia nelle regioni sciite, senza dimenticare quella dei vari fondamentalisti islamici per la supremazia nel campo dell’opposizione interna – per citare solo le più evidenti. E non basta la dissoluzione dello Stato islamico avvenuta negli ultimi mesi a rendere meno esplosiva la situazione, in un contesto in cui in Siria si danno battaglia più potenze regionali e mondiali. Alcuni episodi avvenuti recentemente illustrano bene la pericolosità di questo persistente conflitto.

I raid aerei israeliani dello scorso 10 febbraio contro basi iraniane in Siria in risposta al lancio di un drone da parte dei militari iraniani nei cieli israeliani, costati la perdita di un aereo da combattimento israeliano (il primo dal 1982), può sembrare un episodio fra i tanti, visto che in questi anni Israele ha condotto un centinaio di attacchi e bombardamenti in Siria per contrastare l’invio di armi agli hezbollah libanesi, che in Siria combattono a fianco di iraniani e soldati di Assad. Invece, secondo le analisi pubblicate nei giorni seguenti da persone con contatti altolocati, sembra che ci siamo trovati molto vicini ad uno scontro a tutto campo fra Israele e Iran. Scrive sul «New York Times» l’analista israeliano Ronen Bergman che solo una furibonda telefonata del presidente russo Putin, irritato dalla prossimità degli attacchi israeliani alle posizioni russe in Siria, al primo ministro israeliano Netanyahu ha costretto l’esercito con la stella di Davide a rinunciare ad una vasta offensiva militare in Siria, i cui piani sono da tempo nel cassetto.

Putin si impone direttamente su Netanyahu? Se così fosse, sarebbe un segno evidente della latitanza degli Stati Uniti in Medio Oriente. Secondo Bergman, infatti, negli ultimi mesi gli israeliani non sono riusciti a convincere Washington della necessità di un’azione militare contro gli iraniani in Siria, seriamente intenzionati a crearvi delle basi militari permanenti. Gli americani sono infatti concentrati ad annientare ciò che resta dell’Isis (consapevoli però che migliaia di combattenti stanno fuggendo all’estero e che il gruppo ricomincia ad applicare tattiche di guerriglia in Siria e in Iraq) e a difendere le regioni ad est dell’Eufrate, verso l’Iraq. Tuttavia, anche in quella regione c’è più di un rischio di internazionalizzare ulteriormente il conflitto: dopo aver lanciato un’offensiva militare contro i curdi che controllano Afrin, a nord di Aleppo, il primo ministro turco Erdogan ha intimato agli Stati Uniti di non intromettersi nella lotta contro i «terroristi» curdi, in particolare quando verrà il momento di lanciare più a est un’offensiva contro Manbij, ultima città ancora a ovest dell’Eufrate controllata dai curdi. Washington è intenzionata a difendere gli alleati curdi, che molto hanno contribuito nella lotta contro l’Isis, ma deve evitare uno scontro diretto con un alleato della NATO. Contemporaneamente, gli Stati Uniti devono fronteggiare un più baldanzoso esercito siriano, adesso che grazie a russi e iraniani sta prevalendo sull’opposizione: due settimane fa gli americani hanno bombardato pesantemente le truppe siriane dopo che queste avevano lanciato un’offensiva contro Deir al-Zor e i suoi pozzi, causando numerose vittime, compresi molti mercenari russi. Anche qui, il rischio di uno scontro fra potenze regionali o mondiali è presente.