Siamo tutti qualcosa…

/ 30.10.2017
di Paolo Di Stefano

Succede che un gruppo di tifosi laziali distribuiscono adesivi con il ritratto di Anna Frank che indossa la maglia giallorossa. L’iniziativa idiota avrebbe un doppio obiettivo non dichiarato: dando ai romanisti il volto della ragazzina ebrea gli ultrà pensano di insultarli e vestendo Anna con la loro maglia ritengono di offendere la memoria della Shoah. In risposta, «La Repubblica» lancia l’hashtag #siamotuttiannafrank e molti, da ogni angolo d’Italia, mandano su Twitter la fotografia di Anna sorridente con la maglia della propria squadra. Il che è un modo discutibile (3–) per combattere l’antisemitismo e salvaguardare il ricordo delle persecuzioni naziste. Discutibile perché banalizzante e, come ha scritto Alessandro Piperno (5½) sul «Corriere della Sera», grottesco: un modo speculare e volgare di brandire il volto di Anna Frank con uno slogan di bassa retorica. Per nostra fortuna non siamo tutti Anna Frank e dichiarare con tanta leggerezza di esserlo, dal tepore delle nostre case, ci espone al ridicolo, pur aiutando la nostra buona coscienza, oltre a macchiare la memoria di chi quella tragedia l’ha sofferta come vittima.

«Siamo tutti qualcosa…», ormai. Quella frase fu lanciata il giorno dopo la strage delle Torri Gemelle: «Siamo tutti americani», era una manifestazione di solidarietà con il dolore di un intero popolo. Poi, con le successive stragi, siamo diventati tutti londinesi, parigini, nizzardi eccetera. Nessuno si sarebbe mai sognato di affermare: siamo tutti quei morti, perché i morti sono morti ed è un sacrilegio pensare, da vivi, di identificarsi con loro. Non ne avremmo affatto il diritto. Tanto più sarebbe una pretesa eccessiva, dal calduccio dei nostri appartamenti, affermare di essere anche noi vittime dell’Olocausto. Troppo comodo. Non siamo tutti Anna Frank, perché se tutti fossimo Anna Frank, la tragedia di Anna Frank diventerebbe una tragedia qualunque. Purtroppo ci sono i sommersi e ci sono i salvati, e c’è la «zona grigia» degli eterni indifferenti, sicché ancora oggi a distanza di settant’anni sarebbe sbagliato confondere gli uni con gli altri e attribuirsi tutti il nome di Anna Frank immaginando o fingendo, da vivi, di essere morti in un campo di concentramento nazista.

Che poi il presidente della Lazio, Claudio Lotito (1– o meglio –1), vada a deporre una corona di fiori bianchi in Sinagoga dopo aver detto al telefono «Famo ’sta sceneggiata» e prima di andare in tv per ricordare la sua visita in moschea (sic!), fa solo pena. La corona sarebbe poi stata gettata nel Tevere da un gruppo di giovani ebrei che merita un tondissimo 6. Stessa pena suscita il fatto che l’allenatore del Torino, il serbo Sinisa Mihajlovic (3), intervistato su questa baraonda, esclami: «Ma chi è Anna Frank?». E poi, per giustificare la propria ignoranza, chieda al giornalista: «Va bene, io non conosco Anna Frank ma lei conosce Ivo Andric?», facendone una pseudo questione di cultura letteraria. È ipocrita dedicare un minuto, nello stadio, alla lettura del Diario di Anna Frank, un libro la cui lettura richiede silenzio, compassione, concentrazione.

Il risultato è che quel minuto viene riempito dall’imbecillità delle braccia tese e dal diluvio dei cori antisemiti. È altrettanto inutile e ridicolo e grottesco e insensato che i calciatori scendano in campo con il volto di Anna Frank stampato sulle magliette a mo’ di Che Guevara. Non si diffida mai abbastanza del qualunquismo consumista di certe simbologie da centro commerciale (la maglietta aveva il marchio dello sponsor!). Matteo Renzi l’ha sparata grossa su Twitter: «Se io fossi il presidente di una squadra di calcio, domani scenderei in campo con la Stella di David al posto dello sponsor. E spiegherei ai ragazzi delle curve perché quando pronuncio il nome di Anna Frank mi vengono i brividi. Restiamo umani, amici». Per un giorno Anna Frank al posto dello sponsor? Lascio a voi giudicare la qualità della trovata (intanto per me vale 1). Sarebbe meglio che l’ex premier italiano riflettesse sulla pessima qualità della Buona Scuola, una delle peggiori riforme degli ultimi decenni, la più aziendalista e la meno umanistica, tutta puntellata com’è di competenze, eccellenze, incentivi, meritocrazia, bonus, benefit, dirigenti (i presidi) e utenti (gli studenti).

Bilancio tristissimo di una discussione pubblica che più inutile e ridicola non si può. Anzi nefasta, se si illudeva di sensibilizzare i giovani all’antisemitismo attraverso il pallone. Converrebbe piuttosto sfogliare e risfogliare, e leggere e macinare un libro appena uscito: Elogio del silenzio di John Biguenet (edito dal Saggiatore). Senza pretendere che vi si applichino gli ultrà e gli Irriducibili laziali, lo leggano almeno quelli che hanno la lodevole tentazione di aderire all’hashtag #siamotuttiannafrank. Prendano tra le mani il libro di Biguenet un attimo prima di fare qualunque dichiarazione.