Siamo tutti et-et

/ 31.10.2016
di Maria Bettetini

Fino agli anni Settanta, guardando un film western non si potevano avere dubbi, i buoni erano i «nostri», gli eserciti dei bianchi, mentre i cattivi erano i nativi americani, che con crudeli pratiche come lo scalpo tentavano di fermare il progresso, si ostinavano a non voler cedere le loro terre alla ferrovia, al pascolo, alla ricerca di materiali preziosi. Bastava poi una bottiglia di whisky («acqua di fuoco» lo chiamavano, quei selvaggi) per corrompere qualunque «indiano». Poi, nel 1970, Soldato blu di Ralph Nelson e Piccolo grande uomo di Arthur Penn, nel 1974 Mezzogiorno e mezzo di fuoco (titolo originale Blazing Saddles, Selle fiammeggianti) di Mel Brooks: due vie per scardinare le certezze.

Nel pieno della contestazione contro la guerra del Vietnam, gli Stati Uniti producono film in cui il giudizio sui buoni e i cattivi è capovolto, solo i nativi sono buoni, i bianchi tutti cattivi. Si contesta la violenza della conquista del West, gli stermini di intere popolazioni native, si criticano mostri sacri come il generale Custer. La commedia di Mel Brooks invece si scaglia contro il razzismo, l’Ovest è solo scenario di vicende di corruzione e di lotta contro i «negri» (per l’uso di questo termine il regista fu naturalmente molto criticato, oggi non avrebbe potuto permetterselo, nonostante l’intento anti-razzista). Ridendo con Mel Brooks, o passando dalla parte dei nativi con i film contrari al prevaricare dell’uomo bianco, tutto si capovolge, il nero diventa bianco e il bianco nero. Non nel senso del colore della pelle (che poi i nativi sarebbero propriamente «pellerossa»), ma in quello del giudizio morale che in questo modo risulta del tutto semplificato. La vita è davvero più semplice se vissuta come su una scacchiera, schierati dalla parte dei nostri simili, decisamente bianchi o decisamente neri.

La scelta diventa una sola, quella iniziale, infatti, deciso dove vorremo stare, ci basterà seguire le indicazioni del o dei leader, per continuare a sentirci dalla parte dei «buoni». I manuali che spiegano come difendersi dalle sette lo dicono chiaramente: il neofita sarà introdotto in luoghi aperti solo agli adepti, conoscerà a poco a poco cerimonie segrete; imparerà una terminologia che consenta di intendersi con gli altri adepti in virtù di un codice, appunto, segreto. A volte si riceve anche un altro nome, con la richiesta di un cambio nell’aspetto, non necessariamente forte come una vestizione monacale, almeno non subito. Istintivamente, poi, per sentirsi ben accetto il neofita tenderà a imitare i linguaggio, i gesti, le posture dei più anziani, un po’ come alcuni insetti si mimetizzano per non finire in un attimo nella pancia di una rana.

Sono cose istintive, senza rendersene conto tutti cerchiamo di essere tutt’uno con l’ambiente che ci circonda, per i piccoli poi diventa una legge al fine di evitare la gravissima onta del rifiuto del gruppo. Non diremo ora del «bullismo», di quello che accade quando, a volte per motivi ridicoli, una persona viene ritenuta un corpo estraneo rispetto al gruppo, di come il gruppo si rinforzi nell’espellere e denigrare il malcapitato, di come ciascuno goda di non essere lui, di come la vittima desideri solo morire e spesso ottenga di esaudire questo desiderio, ultimo sia in ordine temporale, che in ragione del suo essere assoluto e irreversibile.

Diremo invece, per ora, della incapacità dell’uomo ad andare oltre l’aut-aut del dentro-fuori dal gruppo, del bianco-nero, qui i buoni là fuori i cattivi, dove il riferimento non è a un bene morale o affettivo o politico, ma a ciò che si decide essere bene e male. Bene per esempio sarà essere magri, avere una famiglia benestante, vincere nello sport, oppure essere spavaldi, non avere remore a far del male ai deboli, a insultare, imbrattare, imbrogliare. Un bene può essere l’appartenenza a un gruppo sportivo, religioso, politico, che trasforma in male tutto ciò che interessa a quelli «fuori» del gruppo. Ma può anche essere detestare ogni gruppo con le sue regole, appartenere quindi al gruppo di coloro che odiano i gruppi. Di solito questi ultimi sono i più severi nella selezione tra bianco e nero. Se non ne fate parte, o se non vi siete accorti di farne parte, cercate i segnali: vi presentano agli amici quasi scusandosi; sono insofferenti alle regole anche (soprattutto) a nome di altri (ma non ti vergogni a obbedire a tua madre?); si espongono poco nelle discussioni, perché intanto sono già oltre. O fuori o dentro, aut-aut.

Eppure più passa il tempo e più mi convinco che tutti noi siamo et-et. Nessuno è del tutto buono, nei sensi intesi sopra, né del tutto cattivo; nessun gruppo ha sempre ragione, c’è altro oltre al bianco e nero. No, non i tristi grigi, ma la fantasia degli infiniti giochi del bianco con il nero, et et, come nel simbolo antico yin e yang, o come diceva Aristotele della virtù che è nel mezzo, non per un livellamento, piuttosto per il rifiuto tra due errori, l’innalzarsi del bene che porta con sé et il nero, et il bianco.