«Scusi ma ci conosciamo?»

/ 03.04.2017
di Bruno Gambarotta

I saggi consigliano di registrare su un diario i sintomi e le conseguenze del trascorrere del tempo. Aiuta a fronteggiarli. Io ci provo. Tanto per cominciare, bisognerebbe imitare Luciano De Crescenzo: se gli capita di conoscere qualcuno, subito lo mette in guardia, scusandosi in anticipo se, incontrandolo in un’altra occasione, non sarà in grado di riconoscerlo, poiché si dichiara affetto da una sindrome che gli impedisce di ricordare i tratti del viso delle persone. Non ho il coraggio di dichiararmi affetto da questa sindrome perché si è fatta strada con gli anni poco per volta.

«Non ti ricordi più di me?»: nell’esclamazione che arrivava dal finestrino abbassato di un’auto accostata al mio marciapiede c’era una nota di sincero rammarico. «Come no?», ho risposto. «Certo che mi ricordo». Ho frugato invano nella memoria alla ricerca di un indizio per arrivare al suo nome ma lui per fortuna mi ha preceduto, dicendo come si chiamava. La rivelazione non ha acceso nessuna luce; vista la sua aria giovanile ho pensato che potesse essere un compagno di studi di uno dei miei figli, uno dei tanti che girava per casa quando preparavano esami. Ipotesi confermata dal fatto che ha voluto aggiornarmi, in un diluvio di parole, sui traguardi raggiunti: «Vivo a Barcellona, mi sono sposato e ho un figlio. Faccio il general manager di una catena di 130 oreficerie sparse in tutta l’Europa di proprietà dei miei suoceri». «Mi congratulo con te», gli ho detto. Era su di giri, sembrava sincero: «Sono così contento di averti rivisto che voglio lasciarti un mio ricordo. Lo prendo dal campionario, tanto non me lo lasciano portare in aereo». Aveva già pronta sul sedile di fianco una scatoletta, l’ha aperta e mi ha dato un orologio da polso dicendo: «Ti piace? È tuo».

Ero frastornato, ignoravo che fosse vietato portare orologi sull’aereo per Barcellona. Intanto lui già apriva un’altra scatola con un orologio da donna, un oggetto di rara bruttezza: «Questo è per la tua signora». Non li volevo ma non sapevo come gestire il rifiuto per non offenderlo. Ci ha pensato lui a togliermi dall’imbarazzo dicendo: «In cambio mi fai fare un po’ di gasolio». Eh, no, caro! Non avrò la silhouette di un bronzo di Riace ma non mi puoi scambiare per la colonnina di un distributore di carburante! Ho corso un bel rischio.

Posseggo diversi orologi da polso e ognuno mi ricorda la persona che a suo tempo me l’ha regalato, la moglie, un figlio, un amico. Se avessi accettato quello del campionario, indossandolo mi sarebbe venuto in mente ogni volta il pieno di gasolio. Non so se avrei avuto altrettanta forza di rifiutare l’omaggio se l’amico avesse avuto un paio di tartufi. Devo camminare un’ora al giorno ma devo imparare a non dare retta agli sconosciuti che mi interpellano per la strada. «Vieni amore mio, non farmi aspettare!». L’invocazione mi arriva nitida da una signora che ho appena incrociato camminando sul marciapiede buio e deserto di un corso di Torino, in un tratto di soli palazzi d’abitazione. Non ho visto com’è la titolare della voce che mi chiamava «amore» perché, come fanno molti vecchi, mentre cammino tengo lo sguardo abbassato per non inciampare nelle sconnessure del marciapiede. Nel mio curriculum manca la voce «rottura del femore» e vorrei che questa assenza perdurasse nel tempo. Cosa faccio? Vado avanti facendo finta di non aver sentito quella invocazione angelica, oppure mi fermo, torno indietro e affronto quella sirena tentatrice?

Le cronache sono piene di storie di anziani truffati, magari quella voce appartiene a una che vuole abbindolarmi per farsi sposare e incassare la pensione di reversibilità. È vero che sono felicemente sposato da più di cinquant’anni, ma lei non può saperlo, magari usa la tecnica di pescare nel mucchio, Torino è piena di pensionati vedovi. E se fosse una mia ex compagna di classe? Ne ricordo tre che per me erano tanto belle quanto inarrivabili, quando abbiamo dato la maturità nel 1956. Però la voce ha detto «non farmi aspettare»: nel caso delle mie compagne sarei io quello che aspetta, e da sessanta anni. Non quadra. La titolare della voce potrebbe avermi scambiato con qualcun altro, sarà una di quelle signore che pensano «gli occhiali da vista mi invecchiano, preferisco andare in giro cieca come una talpa». Ma con chi potrebbe avermi scambiato? Una sola volta mi hanno preso per Piero Chiambretti ma non era una signora, si trattava di un primario napoletano; l’ho capito quando mi ha detto: «Oggi sono andato a pranzo nel suo ristorante». Non volevo che si sentisse in imbarazzo; gli ho domandato: «Si è trovato bene?». «Sì. Però mi è sembrato un po’ caro». Sono stato al gioco: «Sapesse quante spese abbiamo».

Tornando al richiamo di quella sera, ho deciso di lanciarmi, di tentare l’avventura: «Scusi, dice a me?», ho domandato alla signora. Si è messa a ridere: «Mi rivolgevo alla mia cagnetta». Me l’ha indicata, una specie di botticella obesa di pelo scuro caracollava verso di noi. «Ma davvero pensa che qualcuno possa chiamarla amore mio?»