La forte presenza mediatica che ci accompagna da tempo sul fronte della diffusione del coronavirus sembra veicolare, assieme alle informazioni, anche un altro più ampio racconto: il racconto della vita, del suo significato e del suo valore. Succede spesso che da particolari situazioni contingenti si possa risalire ad un orizzonte di senso più ampio dentro il quale queste situazioni prendono voce e diventano realtà.Le informazioni dal fronte del virus venuto dalla Cina sembrano veri e propri bollettini di guerra, ad annunciare la crescita esponenziale dei malati e purtroppo anche il numero dei morti. Per contenere i contagi, su questo «campo di battaglia» si muovono sapientemente la politica sanitaria e la ricerca biomedica. Norme restrittive e quarantene vengono decise per proteggere la salute di tutti i cittadini. A tutti si chiede senso di responsabilità, con aspettative che potrebbero avere ricadute anche molto positive sul nostro fragilissimo sentimento di appartenenza. Gli esperti infatti spiegano, con calma e competenza, che in primis si tratta di arginare una diffusione dei contagi che metterebbe a dura prova il sistema sanitario.Molto bene dunque, dobbiamo restare tranquilli. Eppure no, questi argomenti non sembrano bastare. Un generico malessere, un’inquietudine dalle sfumature anche molto diverse, sembra colpire sempre più persone. Nonostante la chiarezza del messaggio, questa emergenza sembra rinforzare anche una visione della realtà in cui la salute viene identificata, semplicemente, con l’assenza di ogni malattia.
Di più: in questo clima ansiogeno, la malattia viene percepita come una minaccia personale, che si alimenta dentro un potente racconto condiviso. Il coronavirus è il nemico della «mia» salute. Così, il nostro fragilissimo sentimento di appartenenza sembra averla vinta, una volta ancora, chiudendoci sulle nostre solitudini e paure esistenziali ed impedendoci di percepire il significato di un’emergenza che ci riguarda come comunità. Questo potente racconto soffoca così altri possibili racconti della malattia: quelli che pescano nella singolarità di ognuno, quelli che si alimentano delle nostre più intime verità. C’è sempre un racconto personale della vita che può anche colorare la malattia di altre luci e altre ombre.
In questo intimo orizzonte di senso, la malattia si presenta come esperienza personale dell’essere ammalato; non tanto una «cosa» estranea, che non mi appartiene, o che non deve appartenermi, ma una condizione del mio esistere che, in forme anche molto diverse, può accompagnare in alcuni dei suoi giorni la vita di tutti noi. È uno spazio di senso importante, da riconoscere e coltivare, nonostante i più che comprensibili timori di fronte al virus. Riuscire a restare in contatto con questi spazi di senso, in cui abbiamo sperimentato in prima persona l’essere malati, potrebbe proteggerci un po’ dalle paure che ci assalgono dall’esterno. Potrebbe aiutarci a ricondurre il rapporto tra salute e malattia al nostro personale sentimento di interiorità, quando la malattia ci parla in prima persona, quando riesce a esprimere la sua verità ad ogni soggetto che ne fa esperienza. Nell’intimità della nostra esperienza possiamo riconoscere, ed assumere, anche le mancanze, le ombre, le sofferenze della vita. Così, anche l’ammalarsi può rivelarsi una possibilità intrinseca alla salute, in perfetta sintonia con la definizione proposta dall’OMS: la salute è uno stato di benessere globale; non è semplice assenza di malattia. Il benessere globale richiede cura di sé; e cura di sé significa saper assumere la vita anche nelle sue fragilità e nelle sue sofferenze.
Alcune persone che hanno vissuto esperienze anche pesanti di malattia mi hanno confessato di aver riconosciuto, anche e forse soprattutto in quei momenti, il significato e il valore della vita.Assumere in prima persona l’intrecciarsi di salute e malattia, nel movimento della vita, significa accogliere anche l’esperienza del dolore come espressione del proprio stare al mondo. Jean Paul Sartre, che ha molto conosciuto i dolori del corpo, era solito negare la sofferenza. Il dolore resta, diceva, ma solo in quanto dolore. Pensava di isolarlo, assimilandolo alla unicità del suo vivere. L’intrecciarsi di salute e malattia ci permette di sperimentare, fin dentro il nostro corpo, i molteplici battiti della vita, e la sua trascendenza anche, per la quale noi non siamo mai soltanto quello che siamo ora. I Greci, nella loro immortale saggezza, chiamavano l’uomo il «mortale». A noi, oggi, il compito di sempre tener presente che non moriamo perché ci ammaliamo, ma ci ammaliamo perché siamo mortali.