Dopo il capitalcomunista Xi Jinping, ecco un altro riformatore con il pugno di ferro: il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, di fatto il numero uno del paese, specie dopo gli ultimi accadimenti (che Marcella Emiliani ci descrive a pagina 29). Se il primo ha dipinto all’orizzonte il «Sogno cinese», di tornare ad essere la superpotenza di riferimento entro la metà del secolo, il secondo ha schizzato la sua «Visione 2030», di un’Arabia Saudita all’avanguardia, con un’economia che si liberi progressivamente dalla dipendenza dal petrolio, socialmente più aperta (alle donne), religiosamente più tollerante – e lo ha fatto presentando la settimana scorsa a 3500 ospiti del mondo della finanza e dell’economia internazionali il progetto da 500 miliardi di dollari di una robotizzata città tecnologica e commerciale, NEOM, e Qiddiya, una città dei divertimenti in stile Disneyland. Tuttavia, l’Arabia Saudita non è la Cina, il Medio Oriente non è l’Asia del Sud-Est, arabi e cinesi hanno storie ed esperienze diverse.
Utilizzando con molta disinvoltura l’arma della lotta alla corruzione (Xi Jinping insegna), Mohammed bin Salman si è liberato dei suoi avversari, inoltre ora ha il controllo di tutte le forze dell’ordine (esercito, polizia e guardia repubblicana), sta mettendo a tacere quegli ulama che nei decenni scorsi hanno tanto contribuito a diffondere il credo fondamentalista wahabita nel mondo islamico, e ha in mano le redini dell’economia statal-famigliare (quasi tutto appartiene ai Saud). Ma, rompendo la consuetudine di una suddivisione del potere e delle ricchezze fra le coorti della monarchia, si sta creando un esercito di nemici che non è detto voglia accettare supinamente di venire spogliato dei privilegi e del potere. E gli investitori stranieri, di cui il principe Salman ha bisogno per riformare l’economia del paese, restano perlopiù in attesa degli eventi, incerti di quali condizioni quadro troverebbero in una «Salman Arabia» (Thomas L. Friedman, NYT) in cui le leggi e le ricchezze sono ad uso e consumo di chi governa, in cui l’assenza di trasparenza permette di imprigionare anche dei miliardari come al Waleed bin Talal con l’accusa di essersi arricchiti indebitamente ma a Mohammed bin Salman di acquistare la scorsa estate uno yacht per 550 milioni di dollari senza rendere conto della loro provenienza. Per contro, il «repulisti» ordinato dal principe ereditario sembra sia stato accolto con favore dalle generazioni più giovani del paese (il 70 per cento della popolazione ha meno di 30 anni), stanche di un sistema corrotto che non offre molte prospettive professionali interessanti ai cittadini che non fanno parte della famiglia reale; tuttavia queste stesse generazioni dovranno poi dimostrare di sapere compiere una rivoluzione culturale, affrancandosi da un modello economico in cui a lavorare erano soprattutto gli stranieri, mentre i sauditi venivano impiegati e pagati dallo Stato per non fare praticamente nulla.
Ma lo scetticismo si trasforma in preoccupazione, quando dal fronte interno lo sguardo si volge a quello esterno: Mohammed bin Salman ha reso più muscolosa la politica estera saudita: è stato il principe ereditario a scatenare la guerra contro lo Yemen, è lui che vuole tener testa militarmente all’Iran, ad imporre il blocco sul Qatar, sempre lui ad aver imposto al primo ministro libanese Hariri di annunciare le proprie dimissioni (dalla capitale saudita Riad) e di criticare gli sciiti libanesi di Hezbollah, sponsorizzati da Teheran. In Trump, il principe Salman può trovare l’alleato ideale per fronteggiare i persiani, ma una guerra fra i due paesi non può essere nell’interesse di nessuno: non si modernizza e stabilizza l’Arabia Saudita mentre tuonano i cannoni.