Ruoli rovesciati nell’éra della confusione

/ 23.01.2017
di Peter Schiesser

L’«éra della confusione», in cui senza dubbio siamo entrati, non è povera di paradossi, di situazioni inaudite nel vecchio ordine mondiale. Ecco il presidente e segretario generale del partito comunista cinese difendere accoratamente la globalizzazione economica dal pulpito del Forum economico di Davos, luogo simbolo del potere capitalista. Contemporaneamente, abbiamo un presidente americano che non crede nel valore e nell’utilità della Nato e dell’Unione europea e mostra un approccio protezionista in economia. Non esattamente uno scenario da sogno per la stabilità mondiale e per la libertà di commercio, questa scelta fra un protezionismo alla Trump e una globalizzazione il meno regolamentata possibile, come si presenta il capitalismo cinese in patria.

Per Xi Jinping i quattro giorni in terra elvetica sono stati un successo internazionale: la Cina si è presentata sul palcoscenico come una potenza consapevole degli obblighi che le spettano nei consessi mondiali, aperta ai commerci e agli investimenti, ma anche agli scambi culturali, tecnologici, a collaborazioni in campo ambientale. La strategia di seduzione ha funzionato alla perfezione. Affiancato da una first lady carismatica (in Cina si ironizza che Peng Liyuan sia più conosciuta di lui, grazie alla sua carriera di cantante), Xi Jinping ha giocato secondo le regole dello show politico-mediatico mondiale. Si sarà ben visto qualcuno di più sciolto sul palcoscenico (ma la scuola comunista non è proprio un modello di spontaneità), comunque il presidente cinese se l’è cavata bene, i suoi messaggi, mediaticamente azzeccati, hanno toccato corde sensibili in Occidente: chi non vuole una globalizzazione più inclusiva (visti i risultati à la Trump e à la Brexit)? Chi non auspica una Cina impegnata in prima linea contro i cambiamenti climatici? Chi non vuole intingere le mani nel miele dell’economia cinese? Le parole hanno ancora un potere alchimistico in Occidente, facile dunque cedere alla tentazione di credere alle buone intenzioni espresse dal rinascente Impero celeste.

E così, al paradosso iniziale di uno Xi Jinping comunista ma paladino del capitalismo e di un Donald Trump miliardario ma anti-establishment politico ed economico, se ne aggiunge un altro: un innato ottimismo umano porta a voler credere agli auguri di maggiore prosperità ed armonia mondiale pronunciati dal presidente della Cina, paese non propriamente noto per essere uno stato di diritto che rispetti la libertà d’espressione, i diritti umani, e per avere strutture e processi democratici all’occidentale; al contempo induce a sperare che Trump non faccia seguire i fatti alle sue parole. 

Non sarebbe un ottimismo privo di basi: la Cina si sta davvero impegnando per il clima e da una maggiore apertura economica può trarre molto profitto; le strutture istituzionali degli Stati Uniti prevedono dei correttivi che limitano le azioni del presidente.

Tuttavia, da una potenza mondiale, come oggi è la Cina, bisogna attendersi che alle parole seguano i fatti. Nel caso specifico, che acconsenta davvero a garantire reciprocità nelle relazioni economiche, che mostri al mondo un suo specifico e funzionante modello di coesione e benessere socio-economico, che dia un rapido e consistente contributo alla lotta sul clima, ma anche che renda meno inquinanti la sua produzione industriale e i consumi. Con l’augurio che la dirigenza cinese cominci a riconoscere il valore dei diritti individuali e delle minoranze, perché da una nascente superpotenza ci si aspetta che oltre alla ricchezza materiale possa offrire al mondo dei canoni morali non inferiori a quelli di chi l’ha preceduta.