Rousseau padre spirituale dei grillini

/ 28.05.2018
di Orazio Martinetti

Nato a Ginevra nel secolo dei Lumi, Jean-Jacques Rousseau è stato – ed è tuttora – al centro di accese controversie. Giacobino? Padre scriteriato e paranoico? Anticipatore di formule politiche tanto geniali quanto equivoche? La sua biografia è punteggiata di conversioni e di fughe, riflessi di tormenti interiori che lo spingevano a girovagare tra l’arco neocastellano e la Francia, per poi approdare a Londra dove trovò modo di litigare con David Hume. Fu musicista, botanico e naturalmente scrittore politico, autore del celeberrimo Du Contrat social pubblicato nel 1762, uno dei testi classici del pensiero moderno. Ma oggi il ginevrino ruba la scena per un altro motivo: l’esser diventato una «piattaforma».

La «piattaforma Rousseau» è un’invenzione della Casaleggio Associati e del comico Beppe Grillo, i fondatori del Movimento 5 Stelle (M5S), la nuova cometa del firmamento italiano. Costituisce il cuore pulsante del movimento, centro nevralgico in cui confluiscono le opinioni, gli umori e infine le preferenze dei militanti collegati via computer. A detta degli apologeti, questo sistema garantisce all’utente la massima partecipazione possibile, dato che abbatte ogni steccato, ogni ostacolo che ostruisce la comunicazione tra la base e il vertice; in sintesi, rappresenta l’espressione più alta e più nobile della democrazia diretta. Una testa, un clic, un voto. Insomma, Rousseau elevato a padre di un rinnovato protagonismo dei cittadini, finora defraudati dei loro diritti e ridotti a mute pedine dalla casta al potere.

Ci si può chiedere, naturalmente, se questa interpretazione del ginevrino sia corretta e filologicamente fondata. Per rispondere bisogna scorrere i testi. Scrive nel Contratto sociale: «Il popolo inglese crede di essere libero, ma si sbaglia di grosso; lo è soltanto durante l’elezione dei membri del parlamento; appena questi sono eletti, esso diventa schiavo, non è più niente. Nei brevi momenti della sua libertà, l’uso che ne fa merita di fargliela perdere». Esemplare è invece la via imboccata dai vicini dei cantoni svizzeri: «Quando si vedono presso il popolo più felice del mondo gruppi di contadini regolare gli affari dello Stato sotto una quercia, e condursi sempre saggiamente, ci si può impedire di disprezzare le raffinatezze delle altre nazioni, che si rendono illustri e miserabili con tanta arte e tanti misteri?». No quindi alla democrazia rappresentativa, che troppo a lungo rende inerte la cittadinanza; sì invece a pratiche come la «Landsgemeinde», arengo in cui i convenuti decidono in prima persona senza mediazioni.

Rousseau è anche ostile ai partiti, che lui chiama «società parziali»: sono sodalizi che perseguono unicamente interessi particolari, vettori di disgregazione sociale. A quel punto «il nodo sociale comincia ad allentarsi e lo Stato a indebolirsi… la volontà generale non è più la volontà di tutti; sorgono contraddizioni, discussioni; e il migliore parere non è approvato senza dispute».

Come si vede, sono numerosi i brani traducibili in anti-politica, o comunque in sfiducia verso il sistema basato sulla delega. Proclamare Rousseau campione della democrazia diretta non è quindi errato, anche se vanno sempre tenute presenti le condizioni storiche – nel caso specifico il Settecento – in cui quelle affermazioni presero forma.

L’abbiamo detto all’inizio: Rousseau è un pensatore affascinante, ma al contempo ambiguo (com’è d’altronde ambiguo lo stesso M5S). Il tarlo si annida nella «volontà generale», concetto che assurge nei suoi scritti ad entità superiore inscalfibile: «chiunque rifiuterà di obbedire alla volontà generale, vi sarà costretto da tutto il corpo; ciò che non significa altro, se non che lo si costringerà ad essere libero». Obbligare alla libertà: un paradosso che il Novecento, il secolo delle ideologie totalitarie, di Hitler e Stalin, ha visto applicare alla lettera. La strada dell’inferno è sempre lastricata di buone intenzioni.

Si continui dunque a leggere Rousseau, ma con cautela, magari con accanto i libri di Montesquieu. Perché la democrazia diretta è un metodo che non va lasciato a se stesso; dev’essere sorvegliato, corretto, corredato di apposite «regole del gioco». In assenza di tutto questo, è solo uno strumento destinato a cadere nelle mani dei demagoghi di turno. Come accadeva spesso cinquant’anni fa, durante le convulse assemblee del Sessantotto.