Ero di passaggio a Torino, nel giorno in cui è arrivato Cristiano Ronaldo, ma devo dire che le scene di entusiasmo non mi hanno colpito più di tanto. Ricordavo un altro giorno in cui Torino impazzì, lo stadio fu preso d’assalto, si cantò, si pianse. E non era CR7; era Pietro Paolo Virdis.
Anche il 25 luglio 1977 la città si fermò per un calciatore. Per due motivi. Il primo: Virdis a Torino non voleva venire. Legatissimo alla sua Sardegna, alla madre e alle tre sorelle, intendeva restare al Cagliari e riportarlo in serie A; per convincerlo dovettero muoversi Boniperti e uno zio sottosegretario alla Pubblica Istruzione. Migliaia di uomini e donne del Sud, immigrati per necessità, videro in quella storia la propria; e accolsero Virdis in un abbraccio furioso. Era ancora il tempo in cui i calciatori si potevano avvicinare e non arrivavano con l’aereo privato, come CR7. Che alla Juve farà senz’altro più gol di Virdis, destinato a dare il meglio di sé anni dopo nell’Udinese di Zico e nel Milan di Berlusconi.
Il secondo motivo è che i torinesi sono falsi freddi. Dietro la scorza dell’understatement, o meglio dell’«esageroma nen» caro anche a Bobbio, nascondono un’emotività che spunta nei momenti storici; e per i tifosi juventini l’arrivo di Ronaldo, definitivo segno di riscatto a 12 anni dal disastro di Moggi e dalla retrocessione, è un momento storico. Sia pure non paragonabile a un’altra circostanza, epica e solenne, in cui i torinesi mostrarono senza pudore i loro sentimenti.
Quando Dino Buzzati arrivò in città per il «Corriere» dopo lo schianto di Superga (4 maggio 1949), scrisse che «il dolore dei torinesi non è fatto di grida, di pubbliche lacrimazioni, di folle in lutto. Si rifugia negli angoli, preferisce non farsi vedere». Al funerale, però, i piemontesi persero le consuete inibizioni: a migliaia piansero disperati, seguendo le carrozze con i cavalli, ognuna con la sua bara, sotto la pioggia che continuava a cadere, provocando inondazioni in tutta la provincia.
Da allora la città ha subìto una mutazione genetica, e non solo per l’arrivo prima dei contadini divenuti operai, poi dei meridionali. Torino, che l’Avvocato descriveva come «una città di guarnigione», fredda, calvinista, antifascista, oggi è davvero una città italiana, nel bene e nel male. A maggior ragione non deve stupire l’accoglienza maradoniana riservata a Ronaldo, il divo più contemporaneo che ci sia. Una persona di cui all’apparenza sappiamo tutto, dieta famiglia allenamenti, visto che condivide la propria vita sui social; e di cui in realtà non sappiamo nulla, chi sia, cosa pensi, chi ami, anche solo che storia abbiano i suoi figli.
Un divo costruito in palestra, in rete, dallo staff. I tifosi della Juve l’avevano beccato nella finale di Cardiff – per poi beccarsi due gol –, ma l’hanno applaudito dopo il leggendario gol allo Stadium: un gesto in cui i meno giovani hanno ritrovato la rovesciata di Carletto Parola, a lungo simbolo delle figurine Panini. È scattata allora la scintilla: Ronaldo si è inchinato al pubblico portando la mano sul cuore; all’evidenza anche i divi ce l’hanno; e poi questo trasferimento è un affare, per lui e per il clan, a cominciare dal capo, Jorge Mendes.
Per gli juventini l’arrivo di Ronaldo rappresenta la conferma di una centralità anche internazionale della propria squadra che sembrava perduta, e pure del rapporto con la famiglia proprietaria. Tifano Toro la piccola e la media borghesia torinese, che non hanno mai amato la Fiat, proprio per gli arrivi di massa e le tensioni politiche che la più grande fabbrica d’Europa provocava. La Juve pesca tradizionalmente in alto e in basso, tra gli operai venuti da fuori alla ricerca di integrazione e l’alta borghesia che gravitava attorno agli Agnelli: Mirafiori e la collina, dove non a caso andrà ad abitare CR7. Un mondo che ha sempre vissuto come una maledizione il fatto che il club più rappresentativo del calcio italiano, oltre a patire maledettamente il derby, faticasse tanto in Coppa dei Campioni, a differenza dell’Inter e soprattutto del Milan.
Se Ronaldo, giunto a Torino in età matura per un calciatore, sarà visto come l’estrema occasione, l’«adesso o mai più», allora rischia di vedersi caricare sulle spalle una pressione insostenibile anche per i suoi deltoidi. Se invece rappresenterà la leva per portare il fatturato della Juve più vicino a quello delle sue avversarie europee, allora farà da volano per il resto del movimento, e gioverà a tutto il calcio italiano; che trent’anni fa era la superpotenza mondiale, e oggi esce dall’era Tavecchio. In ogni caso, il romanzo popolare del calcio italiano ed europeo si arricchisce di un nuovo capitolo. Tutto da scrivere.