Rivitalizzare la montagna

/ 20.08.2018
di Orazio Martinetti

È comprensibile che nei giorni dell’afa e dell’ozono galoppante si cerchi di salire ai monti per immergersi nella frescura di laghetti e lariceti. In queste occasioni il Ticino urbano – o la città-Ticino – riscopre il Ticino rurale, o perlomeno quanto ne resta: pascoli, alpeggi, cascine. Purtroppo, anche in alta quota, i costumi e i comportamenti restano quelli cittadini, come se le Alpi fossero solo un grande parco-giochi, e non invece uno scrigno di memorie e fatiche, a testimonianza di una civiltà sepolta: muri diroccati, lamiere contorte, travi spezzate e fradice che il gitante della domenica scorge ai margini dei sentieri. Anche queste piccole macerie sono degne di uno sguardo: riportano ad un passato nemmeno troppo remoto, allorché uomini e mandrie raggiungevano le corti più alte. Piccole baite erette coi sassi asportati dagli alvei dei canaloni e dov’è ancora possibile indovinare il perimetro della stalla e del fienile crollati sotto il peso della neve, e persino l’angolo della casera.

Oggi si vive nel tempo della distrazione e dello spazio da consumare; il paesaggio pietroso non incute più alcun timore; anzi, fa da sfondo a miriadi di iniziative sportive e ricreative, uno spazio, pure questo, ridotto a «non-luogo», trasferito di peso dalla città alla montagna. Ma l’occupazione dell’arco alpino durante i mesi estivi non sarebbe così grave se fosse accompagnata da un sia pur breve esercizio mnemonico: gli stenti dei nostri avi, giunti lassù non a bordo di veicoli rombanti, ma su gambe appesantite da masserizie e caldaie. Basterebbe questo ricordo per destare nelle coscienze il sentimento del rispetto.

Rispetto, ecco la disposizione assente. Già Plinio Martini, nei primi anni 70 del Novecento, ne lamentava la mancanza in alcuni indignati passaggi del suo Requiem per zia Domenica: «Legioni di ombelicati divoratori di silenzio vengono, si accomodano sui verdi tappeti rifiniti e lisciati da generazioni faticose come fossero a casa loro, distendono tovaglie, accendono bivacchi, si sdraiano, si toccano, calpestano, giocano a palla e al volano, e poi, all’arrembaggio! vanno a scoprire il rustico sfondandone la porta già sfondata, caso mai ci si possa ancora trovare qualche vecchia catena da camino…».

Dall’alto delle cime scende però anche qualche segnale incoraggiante, che ci fa ben sperare. Alludiamo ad un diverso modo di avvicinarsi alla montagna, fatto di camminate e di lunghi silenzi, attraverso itinerari che favoriscono la contemplazione e la conoscenza. Negli ultimi anni è fiorita tutta una letteratura sulle orme di Henry David Thoreau (1817-1862), scrittore e saggista considerato il padre del pensiero ecologista americano. Solitudine, autarchia, vita frugale a stretto contatto con la vita del bosco e con gli animali che lo popolano: sono questi i princìpi che ispirarono la sua esistenza prima che la sua opera letteraria, e che ora molti giovani riprendono avidamente, alla ricerca di un mondo altro, non intossicato dai miasmi della modernità. Da questo filone letterario qualche insegnamento (se non proprio un modello) si può desumere, se non altro nell’approccio alle escursioni e nel rapporto con l’ambiente.

Ma la montagna deve poter vivere, anzi ri-vivere. Maledetta e abbandonata nel corso degli ultimi due secoli, si ritrova oggi al centro di interessi che alla maestosità dello scenario alpino antepongono la fame di energia degli agglomerati. Sono così spuntati nel tempo dighe, tralicci, elettrodotti e, da ultimo, le pale eoliche. Dopo l’acqua, è il vento il nuovo giacimento da sfruttare. Purtroppo in queste zone nessuno risiederà più in modo stabile, dato che il paesaggio elettrico non incoraggia il ripopolamento, ma soltanto attività di servizio e di manutenzione. La montagna è così diventata il generatore di corrente delle città, un’area di svago (nelle zone dotate d’impianti di risalita) e a volte un deposito di inerti (come il fondovalle dell’alta Leventina).

Le iniziative socio-culturali sorte negli ultimi anni, come il Dazio Grande di Rodi e la fondazione Fabbrica di cioccolato di Dangio, hanno cercato di immaginare strumenti e soggetti per una rinascita, proponendo seminari e dibattiti, ma ora rischiano la chiusura per mancanza di mezzi. I capitali «pesanti» prendono altre strade, economicamente più redditizie.

Il Ticino alpino non deve arrendersi. Sarebbe davvero una perdita irreparabile, anche per il nostro accaldato gitante, se la politica dimenticasse le valli e non riconoscesse validità alle iniziative tese a rivitalizzare la montagna, impedendole di decadere e di trascinare nella caduta tutto il suo plurisecolare patrimonio storico, linguistico, etnografico.