Pian piano la strada si restringe, diventa una viuzza e infine un sentiero accidentato che ad un certo punto s’interrompe. Sparisce nel bosco, come gli Holzwege di Heidegger. Il cammino del giornalismo ticinese (quello storico, legato alla stampa) è stato plurisecolare, accompagnando lo sviluppo del dibattito politico, i partiti e le istituzioni di questo cantone. Ma poi, intorno agli anni ’90 del secolo scorso si è dovuto arrendere all’evidenza: costi in aumento, calo dei lettori, crollo delle inserzioni pubblicitarie. Il «miracolo editoriale» (sette testate) non poteva durare. E infatti non durò. Gli organi di partito quotidiani («Il Dovere», «Popolo e Libertà») sono diventati settimanali; altri sono scomparsi senza lasciare eredi diretti («Il Quotidiano», «Gazzetta Ticinese», «Libera Stampa»). Sulla piazza rimanevano «Il Corriere del Ticino» (tradizionalmente il più solido anche sul piano gestionale), «la Regione» (nata da una precedente fusione tra «Il Dovere» e il trisettimanale «L’Eco di Locarno») e «Il Giornale del Popolo». Quest’ultimo, non è un mistero, caracollava sempre sull’orlo del burrone, con la Curia nelle vesti di provvidenziale samaritano.
Le ragioni di questo progressivo declino sono note. Innanzitutto i costi, elevatissimi. Ben quattro quotidiani («CdT», «Gdp», «Dovere», «Libera Stampa») disponevano di una catena produttiva propria, vale a dire di un reparto tipografico e di una rotativa, impianti che per rendere dovevano girare a pieno regime. Stampare senza sosta. Il che non avveniva. A complicare la faccenda concorreva il progresso tecnologico, vertiginoso e incessante, da inseguire affannosamente anno dopo anno con crescenti investimenti: rincorsa insostenibile, mentre dietro l’angolo si profilava l’ennesimo giro di boa, ovvero la galassia digitale in cui siamo tuttora immersi, un mondo tanto scintillante quanto dispersivo, gremito di fogli gratuiti, informazione spiccia online e di una matassa di reti sociali in cui ciascun internauta crede di poter rinunciare a concettosi editoriali e a puntigliosi approfondimenti. Osservate una carrozza ferroviaria: chi ancora sfoglia un quotidiano?
E ancora: lo squagliamento delle appartenenze politiche. Il giornale è stato a lungo una spilla da esibire che i genitori trasmettevano ai figli; formava le opinioni, orientava e fomentava polemiche, insegnava a distinguere tra amici e nemici, e forniva, nei momenti topici, le necessarie indicazioni di voto. Rappresentava il filo diretto tra il partito e le famiglie, veicolo e specchio degli ideali politici. Dall’analisi della distribuzione delle testate sul territorio era possibile ricostruire il policromo ventaglio delle appartenenze partitiche. Nello specifico dire «Giornale del Popolo» era dire in primo luogo curia e vescovo. Ma anche, in seconda battuta, Partito cattolico conservatore. Il quale, specie durante le campagne elettorali, poteva contare sul collateralismo del foglio diocesano, diretto per oltre mezzo secolo da un sacerdote, don Alfredo Leber.
Ora anche questa costellazione è mutata. Le valli, per decenni serbatoio di abbonamenti al «GdP», si sono svuotate. Lo stesso universo cattolico si è diviso al suo interno, tra integralisti e progressisti. Il processo di secolarizzazione della società (ovvero il graduale allontanamento dei credenti dalla Chiesa e dai suoi precetti, dai sagrati e dagli oratori) ha fatto il resto. Il punto di vista cattolico si è ristretto (un processo analogo è avvenuto a sinistra: anche qui i militanti si sono via via dati alla fuga per gettarsi nella grande rete, il regno delle anime liquide).
Sull’ultima stagione di vita del «GdP» si possono nutrire giudizi divergenti. Luci ed ombre; aperture e chiusure. Ma senza dubbio la sua morte costituisce un impoverimento, non tanto politico quanto morale e culturale. In questi ultimi anni abbiamo assistito al restringimento del campo visivo, ad una progressiva scomparsa delle tribune dalle quali gli intellettuali impegnati, o semplicemente mossi da urgenze etiche, potevano diffondere il loro verbo. Ora siamo al duopolio, e domani chissà. La democrazia ha bisogno di pluralismo come il pesce dell’acqua in cui nuota. Non è un buon segno quando le voci dissonanti tacciono. Qualcuno, segretamente, gioisce (un concorrente in meno), ma alla lunga si pentirà. Perché un brutto giorno la campana suonerà anche per lui.