Autunno 2017, stagione di anniversari memorabili. Cento anni fa la Rivoluzione d’Ottobre con l’assalto, a Pietrogrado, del Palazzo d’Inverno. Cinque secoli or sono l’avvio della Riforma protestante con l’affissione a Wittenberg di 95 tesi contro le indulgenze da parte di un inquieto monaco agostiniano. Due passaggi epocali. Lenin e Lutero; il bolscevismo e il luteranesimo; la lacerazione dell’internazionalismo proletario e la rottura della cristianità; la Russia e la Germania. Da quegli snodi si sono dipartite strade che sono giunte sino a noi, e che ancora divergono. La frattura religiosa permane, sebbene entrambe le chiese abbiano smussato i contrasti e moltiplicato i momenti d’incontro ecumenici; quella politica, dopo aver rivoltato il Novecento con il vomere della furia ideologica (bolscevichi e menscevichi, rivoluzionari e riformisti, comunisti e socialisti), sembra ora riposare in una deserta sala d’attesa. La locomotiva «lanciata a bomba contro l’ingiustizia» (Guccini) si è fermata, esausta.
Entrambe le svolte hanno lasciato tracce profonde anche nel nostro paese. Certo, più Lutero che Lenin. Il Partito comunista svizzero, fondato nel 1921, è sempre rimasto marginale nella contesa politica. È stato però regolarmente utilizzato come spauracchio ogniqualvolta occorreva mobilitare l’elettorato, spaventato dalle conquiste sociali e tecnologiche dell’Unione Sovietica. Diversa e ben più incisiva è stata invece la penetrazione della dottrina protestante. Attraverso la predicazione di teologi come Zwingli e Calvino ha dapprima conquistato città come Zurigo e Ginevra, per poi allargarsi ad altre regioni: un’espansione tradottasi in scontri fratricidi (in una di questi perse la vita lo stesso Zwingli).
Anche nelle terre situate al Sud delle Alpi, nei cosiddetti «baliaggi italiani comuni», l’avanzata del protestantesimo rischiava di innescare conflitti dagli esiti imprevedibili, essendo la carica di balivo attribuita a rotazione tra cantoni dominanti cattolici e protestanti. Fu così che a Locarno si optò per l’espulsione della comunità dei riformati; nel 1555 numerose famiglie dovettero lasciare la città per chiedere asilo altrove. Molte raggiunsero Zurigo, ove fra mille difficoltà cercarono di rifarsi una vita, sia privata che professionale, specie nel settore tessile.
Si è molto discusso, in sede storica, sulle conseguenze di questa ingiunzione. Secondo alcuni, l’espulsione privò la cittadina sul Verbano di rilevanti energie imprenditoriali, che avrebbero potuto rinvigorire il suo tessuto produttivo; secondo altri, la partenza ha permesso di evitare i dissidi che si erano osservati altrove, permettendo così di salvaguardare la «pax helvetica».
Oggi entrambe le chiese puntano sul dialogo interreligioso, sulle iniziative comuni, e tendono ad archiviare sospetti e diffidenze, un tempo inestirpabili. Il Ticino doveva mantenere ad ogni costo la usa «unità confessionale», pena il cedimento all’«eresia» protestante. Non pochi infatti la pensavano come il canonico luganese Giambattista Torricelli: «Il protestantesimo per l’indole sua medesima debb’essere ed è sorgente infausta di guerre, di opinioni, di immensa confusione di dottrine, del distruggimento della fede». Non solo: i riformati si facevano anche portavoce del razionalismo, del progresso, della libertà di stampa, idee e atteggiamenti che si riteneva minassero alla radice il primato della cattolicità.
Naturalmente è bene che gli steccati siano caduti. Resta tuttavia un rincrescimento: che la scuola non sia ancora riuscita ad inserire nei suoi programmi un corso di storia delle religioni che renda conto degli sviluppi teologici, storici, politici di queste due fedi. Sappiamo qualcosa sull’islam, su Maometto, sugli sciiti e i sunniti, ma purtroppo ben poco sui due principali esponenti della Riforma in terra elvetica, Zwingli e Calvino; sui loro princìpi, sul loro rapporto con Lutero, su cosa li accomunava e su cosa li divideva, sulla relazione tra l’etica protestante e l’impresa capitalistica, argomento tuttora al centro delle politiche economiche comunitarie (l’area mediterranea cicala, la fascia nordica formica). Intere generazioni rimaste all’oscuro, mentre tutt’intorno le sette imperversavano, soppiantando le ideologie. Un vuoto culturale che andrebbe colmato al più presto.