Stanno a protestare ancora a migliaia, decine di migliaia, a volte centinaia di migliaia, ad Hong Kong, otto settimane dopo la manifestazione che portò in strada un milione di persone, un abitante su sette, per contestare un progetto di legge che li avrebbe messi alla mercé della giustizia cinese, quella di Pechino, che giustizia non è, poiché alle dipendenze del potere politico. E dalle proteste nascono scontri violenti con la polizia, «assedi» al Consiglio legislativo – il parlamento della città-stato – e alla sede di rappresentanza del governo di Pechino, che nessuno per ora riesce a calmare.
La Chief executive Carrie Lam, longa manus del governo cinese, ha rinunciato da ormai quasi un mese a quel controverso progetto di legge, dichiarandolo «defunto», ma ai manifestanti questo non basta: vogliono che sia ritirato formalmente, che vengano aperte inchieste sulle violenze perpetrate dalla polizia su manifestanti e passanti, e soprattutto che Carrie Lam se ne vada. In Asia non c’è nulla di peggio che perdere la faccia, Carrie Lam non se ne andrà perché lo chiede la strada, casomai ci penserà Pechino a lasciarla cadere e a mettere al suo posto un altro fedelissimo. Ma anche la Cina non sa come comportarsi in questo lembo di terra su cui gravano le umiliazioni del passato (Hong Kong fu il bottino della guerra dell’oppio che gli inglesi scatenarono contro l’impero cinese nel 1842, e questa sconfitta ne suggellò il declino): deve procedere con cautela poiché è il crocevia della maggior parte degli scambi finanziari fra la Cina di Xi Jinping e il resto del mondo, Occidente in primis (vi hanno sede 1300 società straniere, è la quarta piazza finanziaria mondiale, l’ottavo esportatore per importanza al mondo), da qui proviene la maggior parte degli investimenti in Cina. Ma 22 anni dopo aver ammainato la bandiera britannica, Hong Kong sfugge ancora al controllo di Pechino, e questo ad un reggente come Xi Jinping, che fa del controllo totale sulla popolazione la sua priorità, non può piacere.
Secondo gli accordi firmati a suo tempo da Margaret Thatcher e Deng Xiao Ping, Hong Kong tornava sì alla Cina, però avrebbe goduto per 50 anni, quindi fino al 2047, di uno statuto speciale, avrebbe mantenuto le sue peculiarità: un potere giudiziario indipendente, una stampa libera, il suo modello finanziario-economico aperto, le libertà individuali. A dire il vero, l’influenza dei cinesi della terraferma si sente da tempo: controllano il potere politico e lentamente aumentano il controllo sulla popolazione, sequestrano e poi processano in Cina ed incarcerano chi dà troppo fastidio, come successo a diversi editori di libri considerati troppo critici. Evidentemente, le autorità di Pechino hanno pensato che fosse giunto il momento di dare un’ulteriore stretta alle libertà di Hong Kong, che si fosse ormai estinta la vena di proteste sorte nel 2014 con il «Movimento degli ombrelli» contro un accresciuto influsso politico di Pechino, e hanno spinto Carrie Lam ad approfittare di un semplice fatto di cronaca nera (un fatto di sangue compiuto a Taiwan da un cittadino di Hong Kong) per varare una legge sull’estradizione dei cittadini di Hong Kong che avrebbe permesso a Pechino di farsi consegnare qualsiasi cittadino politicamente scomodo, sulla base di accuse anche fantasiose (che poi i tribunali cinesi avrebbero di certo avallato).
Invece – sorpresa! – i cittadini di Hong Kong hanno reagito. Perché sanno che in ballo c’è la libertà, l’indipendenza. Forse pensano che alla fine sarà una lotta contro i mulini a vento (il 2047 si avvicina e Xi Jinping ha fretta), o forse sperano che fino ad allora anche la Cina assomiglierà un po’ di più alla Hong Kong di oggi o di ieri.