Voi svizzeri avete con i referendum un rapporto sano, anche quando danno risultati dolorosi per noi italiani. La democrazia diretta per voi è la norma: c’è una cultura, una tradizione del referendum. In Italia, meno. Nel resto del mondo, va anche peggio.
In un sistema sano, il popolo viene consultato e decide liberamente, senza pregiudizi, senza schemi mentali. Ma di questi tempi non funziona così. Di questi tempi, qualsiasi governo che sottopone la propria linea ai cittadini con un referendum si sente rispondere di no.
Hanno cominciato gli inglesi, licenziando Cameron – che non aveva lavorato così male al numero 10 di Downing Street – e la sua scelta di restare in Europa. Hanno continuato ungheresi e colombiani. Eppure le domande bocciate domenica scorsa potevano sembrare retoriche. Più che referendum, erano plebisciti. «Gli immigrati non li vogliamo, siete d’accordo, vero?». «Pace fatta con i guerriglieri, giusto?». Come si fa a essere contro la pace? Ma l’insoddisfazione popolare e il rigetto verso i leader sono stati più forti: a Budapest la maggioranza è rimasta a casa, vanificando la prova di forza del premier Orban; a Bogotà la maggioranza si è schierata contro, con il rischio di rendere inutile una trattativa durata anni.
Ancora una volta, il fenomeno travalica le categorie storiche di destra e sinistra. In Ungheria la destra è uscita ridimensionata nella sua ambizione di ergersi a regime e ritagliarsi uno spazio al di fuori dalle leggi europee; ma in Colombia la destra ha vinto, denunciando l’accordo con gli ex terroristi come un cedimento all’ondata postcastrista e chavista che ha percorso l’America Latina lasciando disastri dal Venezuela al Brasile. La mancanza di lavoro e le difficoltà economiche aiutano a capire il malcontento, ma non spiegano tutto: mentre il mondo si piegava nella crisi, la Colombia cresceva al ritmo del 4% l’anno.
La prevalenza del no ai referendum non è un fenomeno inedito. In Italia ad esempio, sino alle grandi vittorie di Segni, gli elettori avevano sempre votato no (in particolare all’abrogazione del divorzio e dell’aborto). Dopo l’esplosione del Maggio 1968, De Gaulle sciolse l’Assemblea nazionale e stravinse le elezioni; ma quando l’anno dopo sottopose ai francesi il suo progetto di riforma costituzionale, all’insegna del regionalismo e della partecipazione, fu sconfitto e si ritirò a vita privata, esprimendo l’intenzione di morire il primo possibile (fu accontentato l’anno dopo). E se è accaduto a un gigante della storia essere rifiutato dal popolo che aveva salvato, figurarsi alle figure ovviamente più modeste che calcano ora la scena mondiale ed europea. Complicata da un altro fattore.
A Londra, dove il sistema bipolare ha retto – con l’eccezione del voto del 2010 –, Cameron ha pagato il proprio azzardo con le dimissioni e l’addio alla politica. E in tutto il resto d’Europa i poli ormai sono tre o quattro. Il risultato è evidente: arrivare al 51% in una votazione secca è quasi impossibile; molto più facile per le opposizioni coalizzarsi contro chi comanda, scontrandosi con questioni più grandi di lui. In Francia il presidenzialismo a doppio turno crea una torsione per cui un candidato dal 30% o anche meno prende tutto, e diventa rapidamente impopolare: è accaduto a Sarkozy e a Hollande, domani accadrà forse a Juppé. La Spagna è senza governo da quasi un anno. In Germania la «Grosse Koalition» è di fatto un centrosinistra, con il centro che traballa e la sinistra che affonda. In Italia Renzi ha creduto di rafforzare il sì offrendo la propria testa all’elettorato, e ha ottenuto il risultato contrario.
Basta leggere il sondaggio a cura di Nando Pagnoncelli: nel merito il sì prevale nettamente, punto per punto, dal Senato al Cnel al titolo V; ma quando si tratta di dare un’indicazione netta, l’istinto popolare tende a orientarsi sul no. La campagna è ancora lunga, gli indecisi sono troppi per fare previsioni serie; ma la vittoria del sì, che non molto tempo fa appariva quasi scontata, si trova a dover rimontare la corrente della storia.
Resta una domanda: cosa farà Renzi nel caso, sempre meno improbabile, di una vittoria del no? I ministri che si illudono che il governo possa andare avanti come se niente fosse, prendono una cantonata. Renzi potrebbe anche restare al suo posto; ma verrebbe logorato giorno dopo giorno, dai suoi nemici interni e anche dai compagni di partito che se lo sono fatti piacere e si sono messi nella sua scia, ma sono pronti ad abbandonarlo alla prima sconfitta. A quel punto Renzi farebbe bene a dimettersi. Sarebbe l’unico modo per avere una chance di tornare in gioco.