Quell’Onu che non vuol cambiare

/ 22.10.2018
di Ovidio Biffi

Ancora una volta settembre, oltre alle passerelle delle «fashion week» di Milano e Parigi, ha vissuto anche la sfilata dei capi di Stato e di governo di tutto il mondo sul palco della sede delle Nazioni Unite di Nuova York. Ancora una volta, seguendo sui media il succedersi dei vari discorsi, è giunta l’ennesima delusione: mai che qualcuno davanti a quel microfono arrivi a dire «Signori, questa organizzazione ormai va rifatta da cima a fondo. Mettiamoci al lavoro». Ingenuamente, vedendo sui social media le simpatiche e molto condivise foto del nostro presidente Alain Berset che prende appunti seduto sul bordino di un marciapiede di New York, con zainetto accanto come un semplice studentello, ho sperato che potesse essere lui a trovare il coraggio di una denuncia. Invece anch’egli ha preferito pigiare sul tasto del multilateralismo, emulando Macron nell’evidenziare i pericoli collegati a disaccordi e protezionismi, per concludere con queste parole: «Il mondo non deve seguire le regole del gioco a somma zero. Deve invece essere un gioco a somma positiva, nel quale la cooperazione rende tutti vincitori». Intanto però l’organizzazione creata dopo la Seconda guerra mondiale continuerà a nascondere sotto il tappeto della vetustà l’incapacità ormai cronica di affrontare i problemi prima che questi diventino tragedie, con migliaia di morti, milioni di profughi, miliardi di danni da assegnare. Se il mondo vede ogni anno spegnersi in tanti paesi la luce della speranza, la colpa non è solo dei governi: è anche di questa organizzazione, in particolare delle sue ipertrofiche emanazioni sempre meno disposte a liberarsi dai legacci della politica e ad attivarsi per concretamente soccorrere chi soffre o aiutare chi ha bisogno senza distinzioni ideologiche.

La lunga premessa era necessaria per introdurre un esempio concreto di questa crisi dell’Onu che riguarda la sua attività volta a debellare la fame nel mondo. Proprio nei giorni immediatamente precedenti la sessione plenaria dell’Assemblea a New York, presentando dati aggiornati ha annunciato che per il secondo anno consecutivo il numero delle persone denutrite nel mondo è tornato ad aumentare. Sono infatti passate da 784,4 milioni nel 2015 a 804,2 milioni nel 2016 e sono arrivate a 820,8 milioni l’anno scorso. In due anni, 36,4 milioni di persone denutrite in più. Quasi per cercare di sminuire l’impatto di questo fallimento, responsabili dei vari programmi e dirigenti di Fao, Ifad, Pam, Unicef e Oms (tutti acronimi riconducibili all’Onu) hanno voluto precisare che il dato risulta meno impressionante tenendo conto che è aumentata anche la popolazione mondiale. Infatti se nel 2016 gli affamati nel mondo erano il 10,8 per cento della popolazione mondiale nel 2016, sono diventati il 10,9 per cento nel 2017, e quindi lo scarto è di un decimale soltanto.

Su questi dati il collega Eugenio Cau de «Il Foglio» ha però voluto effettuare un’analisi un po’ più approfondita, basata su un’operazione molto semplice: scorporare i dati scendendo nei dettagli sino ad analizzare quelli dei singoli paesi. È così arrivato a una prima interessante deduzione: il numero di denutriti è praticamente aumentato in modo significativo solo nell’Africa subsahariana e in America latina. Inoltre ha potuto appurare che i paesi in cui denutrizione e fame colpiscono di più sono quelli in cui, per ragioni legate alla sicurezza (Africa subsahariana, più i paesi mediorientali in guerra come la Siria e lo Yemen) o per motivi politici (regimi assolutisti), i benefici del libero mercato e della globalizzazione dell’economia non sono riusciti ad arrivare o sono stati semplicemente rigettati. Spingendo l’analisi dei dettagli in profondità ha infine scoperto che in America latina c’è un solo paese in cui il numero di persone affamate è aumentato; il Venezuela. Il disastro sociale in atto in quel disgraziato paese – che, non dimentichiamolo, siede sulle più grandi riserve di petrolio di tutto il mondo – per la prima volta viene rilevato anche dalla Fao, che però si è preoccupata subito di minimizzarne la portata, preferendo parlare dei dati globali dell’America latina. È assai probabile che si cerchi di nascondere che al Venezuela, da oltre un decennio dominato da una cleptocrazia pseudo-socialista responsabile di una crisi umanitaria drammatica, soltanto tre anni fa era stato assegnato dalla stessa Fao un premio per l’ottimo lavoro svolto nel ridurre la fame nel paese! Un riconoscimento a lungo sventolato dal regime venezuelano come legittimazione a livello internazionale, nonostante tutti già conoscessero i scellerati risultati del «nuovo socialismo» chavista. Ora v’è da sperare che nei prossimi rilevamenti della Fao non si inneggi ancora a un miglioramento nel numero di affamati in Venezuela, visto che due milioni di suoi cittadini sono fuggiti per sopravvivere e ora attendono assistenza e aiuti come profughi in Brasile o in altri paesi dell’America latina.