Quell’ingenua idea di progresso

/ 06.03.2017
di Peter Schiesser

Concesso: se ci guardiamo attorno, possiamo trovare mille conferme che non stiamo vivendo tempi di speranza e di progresso. Un   malcontento popolare diffuso in tutto l’Occidente ne è l’espressione. Allo stesso tempo, possiamo riconoscere mille motivi per credere che di progresso ne è stato compiuto e se ne compie tuttora. L’Era della confusione in cui siamo immersi rende acuti e più visibili questi parallelismi. Ma non è forse sempre stato così, nella storia dell’umanità? Chi ha creduto al progresso lineare della società umana nell’era della modernità, come le generazioni del secondo dopoguerra (ma non ci aveva già creduto la generazione di metà Ottocento?), non ha forse ceduto ad un’illusione, cieca di fronte a quanto contraddiceva i suoi ideali e la sua ideologia?

Prendiamo la generazione degli anni Sessanta, cresciuta in tempi ribelli (anche ideologizzati), creativi, ricchi di scoperte, immersi in un vento di speranza, segnati dalla conquista di una libertà e individualità personale, anche in contrasto con la famiglia, dall’affermazione della prima musica giovanile globale, il rock, che sintetizzava con parole, suoni, emozioni e riti la rottura generazionale nell’Occidente. A parte le derive terroristiche (non a caso avvenute in modo particolarmente virulento in paesi come l’Italia e la Germania, le cui società non avevano ancora fatto i conti con il passato fascista e nazista), i Sessanta sono stati anni con forti spinte verso il pacifismo, le libertà individuali, la parità tra uomo e donna, contro il razzismo. L’economia, poi, girava bene, generando un senso di rilassamento nella società. Cresciuti in un momento di progresso, si tende a vedere la realtà attraverso la sua lente: lo si cerca, lo si trova, lo si auspica ovunque. Ma, a cinquant’anni di distanza, diciamocelo: non sarebbe stato altrettanto facile, negli anni Sessanta e Settanta, trovare motivo di disperare nel progresso umano? Mai come allora l’umanità era minacciata di estinzione, avvolta com’era nella cappa nucleare della Guerra fredda fra Stati Uniti e Unione Sovietica; rivolgimenti geopolitici erano all’ordine del giorno (in Vietnam, in Medio Oriente con la Guerra dei sei giorni, nel continente africano...); dittature sanguinarie erano una forma di governo corrente; le risorse del Terzo mondo venivano depredate senza scrupoli, al prezzo di povertà, guerre e assassinii. Ma credevamo che tutto questo un giorno sarebbe cambiato. Sì, avevamo fiducia nel genere umano, a volte anche a costo di non riconoscere che dietro ai proclami di uguaglianza dei popoli si celavano terribili dittature, come in Cina e nell’orbita sovietica (ricordo tazebao al Liceo di Lugano inneggianti al leader dei khmer rossi cambogiani Pol Pot): forse un’ingenua fiducia.

A differenza di oggi, ieri la spensieratezza era qui, le crisi e le tragedie altrove. Oggi invece viviamo in contemporanea crisi e opportunità: ci ritroviamo in casa guerre lontane (il reclutatore dell’Isis perfettamente integrato nel Luganese è l’ultimo esempio di globalizzazione del terrore), ma con i novelli aggeggi elettronici ci troviamo in mano un potentissimo specchio delle nostre brame; possediamo un know how tecnologico che l’umanità non ha mai conosciuto prima ma mettiamo a rischio la nostra esistenza sul pianeta; ci muoviamo attraverso lo spazio con estrema facilità, ma così fanno anche altri, con il fardello delle loro tragedie. La lezione che possiamo trarne, anche noi generazioni del dopoguerra, è duplice: era illusoria la nostra spensieratezza (quanti dei problemi odierni hanno radici in quei decenni?), ma possiamo continuare a perseguire il «progresso», consapevoli che bisogna metterci di nuovo più impegno per ottenerlo.