Che cos’è successo in Francia? Una parodia della Rivoluzione? O un’insorgenza reazionaria?
L’ondata di protesta dei gilet gialli non si è ancora spenta. Ora forse faranno un partito che si presenterà alle Europee, sottraendo voti ai due leader populisti, Jean-Luc Mélenchon (sinistra) e Marine Le Pen (destra), e quindi facendo un favore all’odiato Macron.
Nel momento in cui è diventato violento e ha aggredito più volte le forze dell’ordine, il movimento di protesta si è affievolito, perdendo il consenso della maggioranza dei francesi. Restano tre punti su cui meditare.
Il primo è la debolezza della classe politica francese, a cominciare dal presidente della Repubblica, colto totalmente di sorpresa dall’esplosione di collera popolare. Mitterrand rimase all’Eliseo quattordici anni. Chirac dodici. Sia Sarkozy sia Hollande hanno fatto un solo mandato. Macron dopo un anno e mezzo ha già perso il sostegno della maggioranza degli elettori. Il sistema a doppio turno favorisce la stabilità a discapito della rappresentanza. I francesi sono sfiduciati e frustrati. E la figura un tempo quasi regale, se non sacrale, del capo dello Stato è oggi esposta ai rigori e alle bizzarrie di un tempo di crisi e di malcontento.
Il secondo punto riguarda le mosse dei Cinque Stelle. Non si era mai visto, nella storia dell’Unione europea, il primo partito di un grande Paese sostenere un movimento violento ed eversivo, in rivolta contro il presidente – criticabile finché si vuole ma democraticamente eletto – di un altro grande Paese, per giunta confinante e legato da secoli di storia comune. Sono atteggiamenti, quelli di Luigi Di Maio che ha offerto ai gilets jaunes sostegno logistico e alleanza elettorale, da capetto di un gruppuscolo in cerca di visibilità; non certo da vicepremier e leader di una forza che alle politiche ha conquistato in Italia un terzo dei voti. Questo conferma l’attitudine un po’ grottesca a fare l’opposizione anche quando si è maggioranza, a presentarsi come un’alternativa di sistema nel momento in cui si è a Palazzo Chigi (e lo si controlla attraverso uomini scelti da un’azienda privata).
I gilet gialli piacciono molto anche a Salvini, che ha condannato le aggressioni ai poliziotti – cosa che a dire il vero ha fatto pure Di Maio –, ma detesta Macron al punto da simpatizzare con tutto quanto si agita contro di lui. Eppure il numero dei manifestanti continua a diminuire, mentre aumenta il livello di violenza e di giusta repressione: 5 mila finora i fermati, di cui 150 finiti in carcere. Il punto è che la Francia è uno Stato serio, e chi tocca i poliziotti prima o poi la paga.
Il terzo punto riguarda i giornalisti. Perché i gilets jaunes li picchiano? Se l’è chiesto un quotidiano, «Libération», che ha interpellato 25 tra direttori, editorialisti, reporter. Qualcuno ha sostenuto che i giornalisti francesi sono troppo diversi dai gilet gialli per capirli. Guadagnano in media 2800 euro al mese, contro i 1800 dei connazionali. Si sposano tra loro, parlano soprattutto tra loro, vivono tra loro, di solito a Parigi (20 mila dei 35 mila giornalisti francesi risiedono nella capitale o nei dintorni). È il «parisianisme», l’incapacità di scendere nella Francia profonda.
Qualcuno ha replicato citando Max Weber: «Non occorre essere Giulio Cesare per comprendere Giulio Cesare». Forse la spiegazione migliore è quella di Jean-Emmanuel Ducoin, redattore capo de «L’Humanité»: «I giornali non raccontano più la vita vera della gente. Dove raccontiamo la sofferenza dietro i muri delle fabbriche? Anche noi abbiamo smesso di farlo». Ed Elorri Manterola di «Explicite»: «Talvolta scriviamo per le nostre fonti e per i nostri colleghi, persone super-informate su cui ci preme fare colpo». Conclude Jérome Lefilliatre, l’autore dell’inchiesta: «Siamo troppo chiacchieroni. Ripetiamo sempre la nostra opinione, anziché dare la parola agli altri».
Mi pare un’autocritica salutare. L’unico modo per colmare la distanza tra i media e i lettori è vivere le vite degli altri. Andare in giro e parlare con le persone, anziché stare sui social, crearsi uno schema mentale e cercare nella realtà qualche segno che lo confermi. Se ad esempio i giornalisti parigini avessero viaggiato di più sulle strade di provincia, avrebbero realizzato che gli automobilisti vivevano come un sopruso di Stato la misura salva-vita di abbassare il limite di velocità a 80 chilometri l’ora.
Anche in Francia, come in Italia, i giovani giornalisti guadagnano meno dei colleghi anziani (in media 1900 euro). Ma tanti – non tutti – vengono da università di élite, hanno assorbito l’inglesorum dei master. Faticano a parlare e soprattutto a pensare come i loro lettori. E tendono a far coincidere il mondo con i confini della loro testa, per cui i fatti non sono nulla e l’opinione è tutto, e il giornalismo diventa (copyright Antonio Albanese) «litigare via Twitter con Celentano». Detto questo, i gilet Gialli dovrebbero imparare a rispettare il lavoro altrui.