Quei libri che tengono compagnia

/ 04.06.2018
di Luciana Caglio

Siamo in tanti ad avere, con Philip Roth, un debito di riconoscenza: che non potremo mai saldare. Non soltanto perché il creditore non c’è più, ma perché quel che ci ha dato non è quantificabile, anzi neppure definibile. Attraverso i suoi libri, ci ha tenuto compagnia per oltre mezzo secolo, regalandoci qualcosa che supera il godimento momentaneo di un bel romanzo. Con lui la narrazione diventa lo strumento privilegiato per esplorare la realtà, incessante intreccio di vicende pubbliche e private.

E così, come avviene nei migliori casi, l’invenzione letteraria si trasforma in testimonianza storica. Roth, del resto, ne possiede persino esemplarmente le prerogative: ebreo, malvisto però in Israele, americano «liberal» ma allergico al nuovo sinistrismo revisionista, fedele alla tradizione familiare e, insieme, libertino, mondano e solitario, amante della vita e assillato dalla decadenza e dalla morte.

Tutte queste contraddizioni, affidate a un linguaggio limpido e a uno spirito ironico, se hanno animato pagine indimenticabili, d’altro canto hanno prodotto l’effetto collaterale della popolarità: allargando la fama dello scrittore fino a coinvolgere l’uomo. Al di là dei consensi, o dissensi, critici, anche Roth si è trovato alle prese con la curiosità del grande pubblico che gli tributava una sorta di culto. Diverso, certo, da quello che circonda gli autori di bestseller, considerati fenomeni editoriali, soprattutto dal profilo finanziario, e disposti a girare il mondo per partecipare a festeggiamenti promozionali. Comunque, il successo ha pur sempre un prezzo da pagare: alto, per un tipo dagli umori imprevedibili come lui. Intanto, la sua abitazione nell’Upper West Side, a Manhattan, la residenza di campagna, una dimora settecentesca nel Connecticut, la casa natale e i luoghi dell’infanzia e della gioventù, a Newark, erano già diventati le tappe di un frequentato pellegrinaggio sulle orme dell’autore preferito. A cui, adesso, si è aggiunta quella definitiva, nel cimitero del Bard College, dov’è stato sepolto, il 28 maggio.

Ora, questa forma di omaggio postumo contraddistingue proprio la categoria di quelli che hanno veramente lasciato un segno, e non solo nelle antologie scolastiche e nei saggi critici. Non si sta parlando, per carità, di meriti letterari, piuttosto della capacità di creare la vicinanza con il lettore che, dal canto suo, deve condividerla. Ne nasce, insomma, la voglia di stare insieme, legati dal filo di una coincidenza, persino misteriosa, che resiste nel tempo. Infatti, si tratta di pagine sempre vive, che si possono rileggere, riscoprire, magari rivalutare.

È un’esperienza che ognuno affronta liberamente, a proprio modo, o, a volte, sotto gli influssi dei consigli di addetti ai lavori (meglio D’Orrico o Fazioli?). Ma, dobbiamo esserne consapevoli, la predizione per l’autore è a rischio di deviazione maniacale. In proposito, devo confessare una passione sconfinata per Charles Dickens, che è pure un pretesto per visitare i suoi luoghi, fra Londra, Rochester e Chatham. E, poi, citando alla rinfusa i miei prediletti, ecco Dostoevskij, Flaubert, Hemingway, Max Frisch, Italo Svevo, Georges Simenon. Una miscela di talenti non paragonabili ma tutti in grado di regalare la vera amicizia.

Anche ai libri, quindi, si può applicare la distinzione che, nelle relazioni umane, separa i conoscenti, compagni occasionali, dagli amici, che durano nel tempo. È la loro prerogativa: non li vedevi da anni e ti sembra che fosse ieri. Alla stessa stregua se sfogli un libro firmato dall’autore prediletto ti senti subito a casa. Con ciò, non va sottovalutato il ruolo dei conoscenti, con cui scambiare quattro chiacchiere, scherzare, rimanendo su temi leggeri. Come, appunto, spetta a quei libri che si limitano a tenerci compagnia, magari simpaticamente.

Proprio qui si fa sentire il fattore tempo e le relative mode che, nel lettore, si abbinano a un certo periodo di vita, a viaggi, a incontri casuali. Per quel che mi concerne, potrei citare scrittori che, accompagnarono appunto, una generazione: Giuseppe Berto (il Male oscuro), Luciano Bianciardi (La vita agra), Fruttero-Lucentini, Giovanni Arpino, oggi dimenticati. Fra i più recenti, ho apprezzato, in particolare, Alessandro Piperno e Marco Missiroli, bravi romanzieri. Che, non da ultimo, hanno il merito di essere, entrambi, cultori del mito Roth.