L’inizio della vicenda di Barack Obama, che sta per chiudersi, è legata a uno dei ricordi più belli della mia storia professionale.
Era il 2 novembre 2008. Il rito della domenica alla Trinity United Church of Christ, la chiesa che per vent’anni era stata quella di Obama, durò due ore e un quarto. Duemila neri, tre bianchi: io, la mia amica italoamericana Natalia, e un reporter messicano che aveva avuto la mia stessa idea. I neri sfilavano a salutarci e abbracciarci, e Natalia piangeva con le lacrime: nata e cresciuta a Chicago, non era mai stata nel South Side – il ghetto afroamericano – in tutta la sua vita.
Cori gospel alternati a orazioni politiche: «Ricordiamoci di Martin Luther King! Ricordiamoci di Malcolm X! Ricordiamoci di andare a votare!». Obama non veniva mai nominato, ma alle pareti c’era la sua foto mentre stringeva le mani dei vicini e chiudeva gli occhi, rapito. E c’era la foto del reverendo Jeremiah Wright mentre predicava con il dashiki, la veste africana simbolo del Black Power. La stessa che indossava nel famigerato video, divenuto uno spot di McCain, in cui l’uomo che ha battezzato le figlie di Obama invocava l’ira del cielo sui compatrioti: «Tutti dicono “Dio benedica l’America”, ma io dico no no no, Dio maledica l’America».
Intervistai il reverendo Wright al citofono. Rifiutò di ricevermi, ma ebbe parole di elogio per il suo allievo. Di Obama Wright era stato il demiurgo. L’uomo che l’ha convertito, lui nipote di uno sciamano del Kenya, figlio di agnostici, cresciuto con un patrigno musulmano. L’uomo che gli è stato al fianco negli esordi politici. Poi le loro strade si sono divise. Il reverendo ha celebrato l’11 settembre, ha rimproverato all’America Hiroshima, Nagasaki, i golpe militari dal Guatemala al Cile, il sostegno a Israele e al Sud Africa dell’apartheid presentati come fossero le facce della stessa medaglia. La Trinity Church l’aveva sostituito con un pastore più giovane.
Dalla chiesa cominciava la Michigan Avenue, destinata a diventare molti chilometri più a Nord The Magnificent Mile. Là la «strada magnifica» correva tra case bruciate, pompe di benzina fuori uso, immondizia al vento, madri con bambini (rarissimi i padri). Poi, man mano che ci si avvicinava al centro, le case si alzavano di uno o due piani, il legno diventava pietra, ai balconi apparivano fiori e canarini. Là viveva Obama quando aveva trent’anni e lavorava come assistente sociale.
Andai a pranzo nel ristorante preferito, MacArthur’s, all’estremità occidentale di Chicago. Il West Side è il peggiore dei ghetti: qui non arriva neppure la metropolitana; ma in quella gigantesca friggitoria Obama tenne le prime riunioni, come racconta nel suo secondo libro autobiografico, L’audacia della speranza. Lo gestiva ancora Mac Alexander, nero sessantenne con una gamba sola, reduce dal Vietnam e dal Mississippi. Specialità del Sud: tacchino fritto e pescegatto. Nessun bianco ai tavoli. «La prima volta che lo vidi – mi raccontò Mac Alexander – venne qui con una decina di persone. Poi divennero venti. Alla fine riempiva il locale. Organizzava le lotte di quartiere, per togliere l’amianto dalle case e le prostitute dalle strade. Le gang del posto non l’avevano in simpatia, una volta vennero qui a cercarlo; scoppiò una rissa, la gente lo difese. Alla fine sono diventati amici. Fu lui che mi convinse a dare un lavoro a quei ragazzi. Dei miei venti camerieri, quasi tutti sono stati in galera».
Obama il carcere non l’ha conosciuto, ma il razzismo sì. E ha sempre reagito. Restò in silenzio solo il primo giorno di scuola, quando un compagno gli chiese se suo padre era un cannibale. Al primo ragazzino che gli disse «negro» fece sanguinare il naso. Il tennista che gli chiese di non toccare la lavagna con i nomi degli atleti – «il gesso potrebbe sbiadirti la pelle» – fu minacciato di querela. Dalla vecchia che l’aveva preso per un ladro pretese invano le scuse. All’allenatore di basket che teorizzava «ci sono i neri e ci sono i negri» rispose che «ci sono i bianchi e ci sono i figli di puttana come te». Non si sa come abbia reagito la volta che, davanti a un ristorante del centro, aspettava il valletto dell’auto e si vide tirare le chiavi da una coppia di bianchi, convinti che il valletto fosse lui.
Ora che tutto sta finendo, mi piace tornare con la mente a un periodo indimenticabile; quando Obama appariva una grande speranza. Il suo bilancio è positivo in economia ma negativo in politica estera. Ne riparleremo.