Chi troppo, chi niente. Sembra un paradosso, mentre l’emergenza chiede unità, anzi uniformità, tutti insieme sulla stessa barca. Ma, suo malgrado, ha creato disparità proprio sul piano del lavoro. Con effetti che sfuggono a norme contrattuali e sindacali. La minaccia di un pericolo da arginare mobilita categorie ad hoc, impegnate in attività rese prioritarie. E così, su medici, infermieri, soccorritori incombe una mole di lavoro al limite delle loro stesse capacità, cui spetta, la qualifica, non retorica, di eroi del momento. Indispensabili anche le prestazioni di farmacisti, autisti di mezzi di trasporto, cassiere di supermercati. Si continua a lavorare, a pieno ritmo, nelle redazioni dei quotidiani e negli studi radiotelevisivi, ai quali è affidato un compito ingrato: informare sul decorso di un’epidemia, sin qui in salita. Dare, cioè, cattive notizie. Obbligo condiviso dai politici, alla ribalta non più per suscitare simpatie, bensì malumori.
Altri lavoratori, invece, hanno perso, temporaneamente, il posto di lavoro. E qui posto sottintende il luogo che ospita attività, impossibili altrove. È il caso di ristoranti, negozi, fabbriche, cantieri dove le mansioni non sono trasferibili. Per loro si apre un vuoto chissà se colmabile. È una vacanza involontaria, sottratta al turismo organizzato, cui affidare il tempo libero. Adesso, da inventare con la fantasia, che non è di tutti.
Diversa la situazione di chi svolge compiti delegabili al computer. Concerne una folta collettività nel terziario, in primis gli insegnanti. Dalla cattedra in aula alla scrivania di casa, davanti allo schermo per trasmettere testi e grafici che contengono lezioni e interrogazioni. La riconversione funziona, tanto da intasare il portale informatico. Allievi d’ogni grado rispondono, sollecitamente, alle richieste di maestri e professori virtuali. Succede che ne rimpiangano la presenza fisica: «Vorrei essere lì, ancora con lei, in aula». Messaggi che traducono un bisogno primordiale, a ogni età: fare, occuparsi di qualcosa, competere con gli altri. Un giro di parole per dire lavorare.Sia chiaro, non s’intende tessere l’elogio incondizionato del lavoro, per molti fonte di fatica e amarezza. Si rischia di andare controcorrente rispetto alla tendenza, cresciuta negli ultimi decenni: chiedere il pensionamento anticipato, l’anno sabbatico o il part time. Per altro, soluzioni legittime che consentono, in particolare alle donne, l’abbinamento ufficio-casa. E confermano la capacità di ridimensionare il lavoro, non più protagonista assoluto della quotidianità per sfruttare, invece, le alternative del tempo libero. Che, a sua volta, ha creato una dipendenza, dai risvolti grotteschi: il lunedì che vede impiegati segnati dalle sfacchinate del weekend. Se il lavoro stanca, dice il proverbio, il riposo attivo non è da meno. Questione di scelte di vita e preferenze, possibili fino a ieri. Oggi il bisogno o piacere di lavorare deve fare i conti con la «dura lex sed lex» di divieti e chiusure che non risparmia nessuno. Neppure gli indipendenti, i creativi, gli artisti, gli architetti.
«Per me è un dramma», dichiara, senza mezzi termini Mario Botta, che si ritrova solo nel suo studio-laboratorio, chiuso da oltre tre settimane. «Per prudenza ho anticipato i divieti: tutti a casa i miei collaboratori, fra cui alcuni provenienti dalla Lombardia». In questa forzata solitudine, misura l’insostituibilità dei contatti con persone e materiali. È cresciuto con la matita in mano, suo strumento persino simbolico. E dalla matita nasce il progetto: «Prima schizzo su carta, poi modello in cartone, poi in legno e infine in pietra, attraverso correzioni e interventi da parte di artigiani, tecnici, specialisti. Un lavoro di squadra». Ora, la squadra non c’è più e, per Botta, non può essere demandata ai mezzi informartici. «Appartengo alla generazione abituata al piano orizzontale. Lo schermo verticale mi rimane estraneo, al di là dei vantaggi pratici. Altri colleghi si sono convertiti al virtuale, che abbrevia i tempi. L’architettura, del resto sta cambiando fisionomia e contenuti. Si costruiscono, in fretta, edifici mirabolanti, frutto di operazioni miliardarie spregiudicate. Un mondo, lontano per chi rimane fedele a un lavoro scrupoloso, attento alla qualità. Per colmare il vuoto del momento, Botta sta catalogando il materiale che racconta i vent’anni dell’Accademia di Mendrisio: «Un punto d’incontro fra modernità didattica e tradizione locale, in un Ticino dove il mestiere di costruire ha radici profonde nel territorio».