Protezionismo: il canto delle sirene

/ 20.02.2017
di Orazio Martinetti

Il protezionismo è sulla cresta dell’onda, suscita applausi, incamera consensi. Perché rassicura, placa le ansie, conferisce un’atmosfera domestica ad un mondo sfuggito di mano, sempre più lontano ed ostile. Chiedere protezione è una reazione istintiva normale, non è una colpa, e tanto meno un peccato. Il che, però, non rende meno problematico il concetto.

Protezionismo contro globalizzazione. E in mezzo, quale attore sempre più impaurito, il ceto medio. Il quale, in questi processi, in questi flussi che non controlla, si è ritrovato improvvisamente solo, dentro un ascensore cigolante in continua discesa, con meno lavoro e meno redditi. Al sogno della regolare promozione sociale è subentrata prima la frustrazione e poi il rancore verso le élites economiche e finanziarie che invece, dal nuovo «disordine mondiale», hanno tratto enormi profitti.

Ora, un po’ ovunque, sta montando la ribellione, che presto si tradurrà in voti e in ribaltoni governativi. Ha iniziato l’Inghilterra, con la Brexit, seguita dagli Stati Uniti. Nei prossimi mesi sarà la volta dell’Olanda (marzo), della Francia (aprile-maggio) e, in settembre, della Germania: tre paesi fondatori della Comunità e appartenenti all’Eurozona. La parola d’ordine è: barra a destra, ridiamo il potere al popolo, impicchiamo l’euro, rialziamo le frontiere nazionali e moltiplichiamo gli ostacoli daziari.

Nessuno sa dove porteranno davvero questi indirizzi, ma già ora si conoscono i nomi delle prime vittime del nuovo corso, con i funerali celebrati oltre Manica: Adam Smith e David Ricardo, i fondatori della scienza economica moderna, i teorici della concorrenza e del «laissez-faire». La patria del liberalismo è scesa in guerra contro la sua stessa storia di grande potenza commerciale.

E il nostro paese, quale strada ha imboccato (o imboccherà)? Non sicuramente quella del protezionismo economico, che per l’industria avrebbe esiti disastrosi; piace invece il protezionismo sociale, che ha visto le sue quotazioni salire con l’approvazione dell’iniziativa UDC contro l’immigrazione di massa. Merci e capitali possono circolare liberamente, ma non le persone: questa è la tendenza che si sta delineando nella Confederazione, specie nei cantoni di frontiera, le aree più esposte alla pressione esterna.  

L’alternanza apertura/chiusura è una costante nella storia delle economie nazionali. Ogni paese, in epoche diverse, ha cercato di salvaguardare la propria produzione, soprattutto agricola, erigendo barriere all’importazione, sotto etichette variabili, alcune esplicite (come i dazi e le tariffe), altre mascherate (come norme igieniche particolari) o pretestuose. Anche la soluzione delle «zone franche» o «a statuto speciale» scaturiva dal medesimo schema logico. Provvedimenti ch’erano comunque a doppio taglio, come tutti sapevano o intuivano, sia perché determinavano contro-misure analoghe da parte dei paesi partner, sia perché provocavano il rincaro della produzione indigena, penalizzando i ceti popolari. Inoltre il venir meno della concorrenza spegneva l’inventiva dei fabbricanti, che cessavano di investire per migliorare la qualità dei prodotti.

Resta da vedere quale futuro avrà invece il protezionismo sociale (e anche intellettuale: insegnanti, ricercatori, scienziati), invocato a gran voce sia a destra che a sinistra. Il dibattito in parlamento sull’applicazione dell’iniziativa del 9 febbraio 2014 ha già mostrato quanto sia difficile quadrare il cerchio senza subire ritorsioni da parte dei paesi dell’Unione europea. Le stesse aziende elvetiche chiedono di poter prelevare dal mercato continentale la forza-lavoro e le intelligenze di cui hanno bisogno, senza le quali nessuna innovazione è possibile. Si vorrebbe insomma introdurre un setaccio, capace di selezionare gli ingressi in base alle esigenze e all’evoluzione congiunturale, come nell’epoca in cui vigeva il regime dei contingenti. Una soluzione che tuttavia l’Ue respinge per non incoraggiare intendimenti emulativi nella sempre più nervosa famiglia europea. 

Al presente protezionismo economico e protezionismo sociale camminano ancora disgiunti. Ma già si profilano segnali di una convergenza sotto le bandiere del nazionalismo (o sovranismo). Perché economia e politica prima o poi s’incontrano, creando un corsetto unico insofferente alle regole della democrazia e alla cooperazione internazionale.