A volte prevale lo scoramento, l’impressione, suffragata da sempre nuove conferme, che la battaglia finora condotta sia stata vana: necessaria, eroica, ma alla fine inutile. Ci riferiamo alle sorti dell’italiano, innanzitutto nella Svizzera italiana, poi nell’intera Confederazione, nelle scuole, nelle università, nell’amministrazione federale, nei media e nella pubblicità, nell’esercito, nelle grandi aziende. Quest’ultimo aspetto – il ruolo e l’importanza delle traduzioni nell’impresa economica – viene spesso sottovalutato e quindi trascurato. I cartelli appesi nei grandi magazzini si limitano a ricalcare pigramente i testi concepiti in tedesco. Davvero le agenzie di marketing non riescono a produrre qualcosa di meglio, di più accattivante, di più brioso, se del caso dando un’occhiata agli ipermercati italiani? Molti anni fa la RTSI (allora si chiamava così) diffuse un opuscoletto in cui si invitavano i creativi d’Oltralpe a non trascinare nel fango l’idioma italico: Chi spotte la nostra lingua? Si voleva dire ai pubblicitari, senza acrimonia alcuna, che non era il caso di salmistrare la lingua dei potenziali destinatari, perché questi non erano soltanto folle di consumatori, ma esponenti di una minoranza, ovvero di una civiltà, e come tali meritevoli di rispetto.
Ora però continuano ad arrivare lettere che sembrano confezionate apposta per riattizzare il fuoco dell’indignazione: «Invitazione… non transferibbile… Lei è privilegiato a ricevere l’esclusiva medaglia speciale “Gottardo”!» Possibile che il mittente non si sia reso conto dello scempio, con esiti disastrosi per la stessa iniziativa commerciale?
C’è stato un lungo periodo in cui l’italiano fuori d’Italia poteva contare su simpatie e solidarietà. La linfa vitale gli giungeva dalle sue larghe radici di lingua di cultura: dalla letteratura, dalla lirica, dal teatro, dal cinema; negli anni 70 del Novecento la sua musicalità viaggiava sulle note delle canzoni d’autore. Anche chi non aveva mai letto né Dante né Manzoni, ascoltava volentieri De Gregori, Dalla, Venditti, Guccini. Italianità e impegno sociale. Poi venne la moda e la gastronomia, in una parola lo stile di vita italiano, che Piero Bassetti riassunse nel concetto di «italicità», una visione e un comportamento che potevano anche prescindere dalla lingua, bastava un generico rimando, la volontà di riconoscersi nei canoni della bellezza rinascimentale.
Bei tempi, gettati purtroppo alle ortiche dall’involuzione prodottasi negli ultimi decenni; un regresso provocato da un lato dall’invasione di una marea di anglicismi gratuiti e dall’altro dall’apologia acritica, questa sì populista, dei dialetti, considerati come espressione autentica delle radici, voce dei nostri avi, testimonianza genuina della nostra anima.
Nelle scorse settimane, tutti i nostri quotidiani e settimanali, «Azione» compresa, hanno ricordato l’opera e la figura di Tullio De Mauro, illustre linguista scomparso lo scorso 5 gennaio. Ebbene: De Mauro, fin dai primi anni Settanta, volle mettere in guardia genitori e insegnanti dai pericoli di una pedagogia linguistica troppo rigida, che lui definiva addirittura «dittatoriale». Dialetti e italiani non andavano contrapposti; tutelare e coltivare i vernacoli non era un crimine, come riteneva il fascismo. Tuttavia occorreva tener presente una distinzione fondamentale, e funzionale. «È molto importante – sottolineava ogni volta – che i cittadini italiani sappiano tutti l’italiano. Tutti e non solo una parte, proprio in conseguenza della pedagogia dialettofobica che ha allontanato tanti dalla scuola precocemente. La capacità di potersi servire di una stessa lingua è la prima base di intesa all’interno di una stessa società».
Questo pensava e diceva De Mauro nei primi anni Settanta, tra l’altro anche a Muttenz (Basilea campagna) durante un convegno organizzato dall’Ecap-Cgil sul tema della formazione linguistica dei lavoratori emigrati. In quell’occasione (aprile del 1975) De Mauro illustrò le «dieci tesi per l’educazione linguistica democratica», un decalogo che segnò una svolta sia nell’insegnamento, sia nel modo di far convivere i dialetti con l’italiano, senza che i primi ostacolassero, per ragioni di status familiare e sociale, il passaggio al secondo.
Ma veniamo a noi. Nel dopoguerra quasi tutti gli svizzeri italiani sono cresciuti dentro un bozzolo dialettofono. L’italiano è venuto dopo, sui banchi di scuola, leggendo libri e giornali, ascoltando la radio, guardando la televisione. Per la maggioranza è stata insomma una conquista, la faticosa scalata del manzoniano Resegone, nella consapevolezza che la padronanza dell’italiano rappresentasse la chiave d’accesso ad un universo aperto, energetico, ricco di opportunità, sia professionali che culturali. Dimenticare quest’ascesa, questo cammino di riscatto, vorrebbe dire ricadere nella subalternità, condizione in cui le nostre terre vissero a lungo prima di investire ingentissime risorse nella formazione scolastica. Stefano Franscini – padre dell’educazione popolare – conosceva perfettamente questa situazione, tant’è vero che uno dei primi compiti che si propose fu la compilazione di una Grammatica inferiore della lingua italiana (manuale recentemente riedito dalla Demopedeutica).