Potemkin: le disavventure di un nome

/ 12.06.2017
di Luciana Caglio

Per il pubblico di lingua italiana, l’associazione è persino automatica: se si sente dire Potemkin, si pensa a Paolo Villaggio, cioè a Fantozzi. E, precisamente, all’episodio in cui il personaggio, simbolo di angherie e umiliazioni subite vilmente, si riscatta con una battuta, ormai storica: «Per me la corazzata Kotiomkin è una cagata pazzesca», grida parafrasando ironicamente il titolo originale. È la scena più esilarante e significativa della pellicola, diretta da Luciano Salce, e non va dimenticato, nel 1976. Cioè nel pieno dell’era dei cineclub, luoghi consacrati proprio al culto di quest’opera di Sergej Eisenstein, considerata «il più bel film di tutti i tempi», sia sul piano estetico che ideologico, e quindi destinata a svolgere una funzione educativa per i lavoratori. Come avviene, appunto, nell’azienda che impiega il ragionier Fantozzi, il travet per definizione sottomesso, che, però, inaspettatamente rompe un tabù. Rifiutando di sorbirsi l’ennesima proiezione con relativo dibattito, di un film imposto dalla dirigenza, si ribella «alla cultura che viene dall’alto». Sta di fatto che il gesto, compiuto da questo modesto impiegato, supera la finzione cinematografica, per entrare nella realtà, innescando una polemica sempre aperta. Per i patiti di cinema, Eisenstein, che cadde poi in disgrazia, accusato di antistalinismo, rimane un intoccabile e, quindi, il Kotiomkin fantozziano, sarebbe soltanto una volgarità. Niente a che vedere con il vero Potemkin.

Invece, ecco che il nome Potemkin subisce un’altra umiliazione. E, questa volta, attraverso un fatto di cronaca, che ha avuto un eco mondiale. L’episodio, infatti, si riferisce al Forum internazionale dell’Artide che, lo scorso marzo, aveva riunito ad Arcangelo, sul Mar Bianco, ospiti di riguardo: politici, scienziati, tecnici, ambientalisti, giornalisti. Per accoglierli, l’amministrazione locale aveva allestito passerelle antisdrucciolo, tratti di strade dal fondo impeccabile, ricoperto con strati di neve pulita cumuli di sporcizia: a testimoniare l’impegno dedicato allo sviluppo in una zona, climaticamente impervia. Si trattava, però, di interventi provvisori: per salvare le apparenze, senza nessun vantaggio concreto per la popolazione residente. Partiti gli ospiti, telecamere e reporter compresi, sarebbero stati rimossi. Così, com’era successo, in tante altre occasioni, che appartengono, ormai, a una vera e propria tradizione: scenari e sceneggiate per produrre uno spettacolo che è un inganno. Nel linguaggio popolare, si chiamano «villaggi Potemkin». Ciò che ne rivela l’origine.

L’ideatore di questa messa in scena era stato proprio lui, il principe Grigorij Alessandrovic Potemkin, che l’aveva inaugurata, in occasione della visita di Caterina II, in Crimea, nel 1787. La zarina, di cui il giovane Grigorij aveva conquistato i favori, fu accolta in un clima fiabesco: fuochi d’artificio, orchestre lungo le rive del Dnjepr, deliziose contadinelle e robusti contadini, in abiti della festa, colorite facciate di cartapesta per camuffare le casupole malandate degli abitanti, mentre i personaggi erano attori arrivati da Pietroburgo. Secondo lo storico Simon Sebag Montefiore, a denunciare l’inganno fu, vent’anni dopo, l’ambasciatore di Sassonia, Georg von Helbig: il primo a parlare di «villaggi Potemkin», strumenti di propaganda, e basta.

L’espressione continua a essere attuale. Anzi, nel corso dei secoli, ha assunto i toni di una voce critica, di dissenso, in apparenza scherzosa, malvista dalle autorità. In realtà, rappresenta un’arma con cui i cittadini di un grande paese, passato da un imperialismo a un altro, dimostrano di essere gli spettatori consapevoli di un bluff. Come, a suo tempo, lo furono tedeschi, italiani, spagnoli, insomma i sudditi di regimi dittatoriali, dove il culto della facciata, del grandioso, del primato serve a camuffare la quotidianità alimentando sogni patriottici. Attualmente, l’esempio più rappresentativo è la Corea del Nord. Ma, anche da Washington arrivano segnali allarmanti. Il «villaggio Potemkin» non conosce confini.