Arriva l’inverno e il povero maiale ha i giorni contati. O meglio, li aveva quando era ancora lecita e praticata la macellazione domestica; in campagna ogni famiglia allevava il suo maiale nutrendolo con gli avanzi e da dicembre in poi era pronta a sacrificarlo. Per tutti, grandi e piccini, era l’occasione per fare festa, per molti l’unica occasione dell’anno per mangiare a volontà senza sensi di colpa, nutrendosi di quelle parti dell’animale che non potevano essere conservate. Il pensiero che i bambini potessero assistere a quello spettacolo cruento ci fa inorridire, segno fra i tanti che è mutato il nostro atteggiamento verso l’infanzia, anche se non sono trascorsi molti anni da allora.
Ricordo la cerimonia nell’aia della cascina dei miei nonni materni; il maiale, presago della sua fine, lanciava acute strida mentre gli legavano le zampe posteriori e lo issavano a testa in giù, appendendolo a una scala appoggiata al muro. Il norcino sistemava un secchio sotto la testa dell’animale e con un coltellaccio gli recideva la carotide. Il sangue che colava nel secchio sarebbe servito per cucinare un piatto prelibato, con l’aggiunta di cipolle, uvetta e cacao per addensarlo; un piatto da mangiare subito, alla sosta di mezzogiorno. Iniziava la lunga lavorazione della carcassa che, calata dalla scala, era immersa in una grande bacinella piena di acqua calda per ammorbidire le setole in modo da poterle raschiare via e diventare materia prima per la fabbricazioni di pennelli. Corrisponde al vero il detto: del maiale non si butta via niente.
La parte più delicata riguardava la preparazione della carne da insaccare per fare i salami; dopo averla macinata la si condiva con il sale in una percentuale che variava dal 5% al 10% e si aggiungevano pepe, cannella, noce moscata, chiodi di garofano, aglio cotto e vino. Ogni norcino aveva la sua ricetta segreta che avrebbe confidato solo al figlio che avesse seguito le sue orme. Testimoni di diverse regioni italiane hanno rievocato in scritti venati dalla nostalgia la cerimonia della macellazione del maiale e della successiva cena. Pressoché tutti i racconti fanno pensare a un rito pagano. Non a caso nelle tre grandi religioni del Libro solo il Cristianesimo consente di mangiare carne di maiale.
Per quale motivo ebrei e musulmani osservanti non possono mangiare carne di maiale? Una spiegazione, convincente perché basata sulla concretezza dei dati materiali e non desunta dai libri sacri, si trova nel libro dell’antropologo Marvin Harris, Buono da mangiare. Enigmi del gusto e consuetudini alimentari. I maiali, sostiene Harris, in quanto onnivori, contendono il cibo agli umani. I ruminanti, bovini, ovini e caprini allevati dagli antichi Israeliti, «si nutrono di erba, arbusti, fieno, stoppie, paglia e foglie che l’alto contenuto di cellulosa rende inadatti al consumo alimentare da parte dell’uomo, anche dopo cottura prolungata». Il maiale continua a essere allevato e mangiato nell’Europa del nord, ricca di foreste e di ghiande di cui l’uomo non si nutre.
Abbiamo un riscontro indiretto dalle ricerche di Massimo Montanari, insigne storico, nel suo L’alimentazione contadina nell’alto Medioevo: «Fin dall’epoca romana, la Valle Padana era celebre per la produzione di ghiande, che consentiva l’allevamento su larga scala dei maiali, destinati sia al consumo locale che al rifornimento della capitale e degli eserciti. Ancora per tutto il Medioevo, il maiale rappresentò per i contadini dell’Italia del Nord l’alimento base della dieta carnea. (...) L’allevamento dei maiali si faceva prevalentemente nelle foreste di querce, e il tempus de glande segnava una scansione fondamentale del calendario dei lavori. D’autunno, quando le ghiande e le faggiole cominciavano a maturare sugli alberi, il porcarius – tutti o quasi i coloni lo diventavano, in questo periodo – portava fuori il gregge a mangiar, bacche, erbe e radici, e soprattutto i frutti della quercia e del faggio, che egli scuoteva con la pertica, facendoli cadere a terra. (...) Solo in minima parte la carne di maiale veniva consumata fresca, subito dopo l’uccisione dell’animale a dicembre o a gennaio; ancora fino a pochi anni or sono tale avvenimento era un punto fermo del calendario contadino, una grande festa che trovava per l’occasione riuniti attorno alla tavola tutti i famigliari, i parenti e gli amici, a consumare in breve tempo le parti dell’animale inadatte alla conservazione».
Benito Mazzi, cultore delle tradizioni della Val Vigezzo, scrive nel suo recente O porco mio gentil (e sfortunato): «Per la cena del maiale si invitavano tutti i parenti, anche quelli alla lontana (...). Un posto di riguardo a tavola occupavano padrini e madrine. Ai vecchi e a quanti non potevano muoversi dalla propria abitazione si recapitavano due piatti a domicilio, col risotto e un assaggio di tutto. Vigeva la convinzione che se alla cena non fosse intervenuto l’intero parentado, il maiale non si sarebbe conservato, sarebbe andato a male». Una tradizione che non potrei rispettare, due terzi del mio parentado sono diventati vegetariani e un paio di nipoti vegani.