La vittoria in Italia della Lega e del Movimento 5 Stelle ha riaperto il dibattito sul futuro delle democrazie occidentali. L’elezione di Emmanuel Macron in Francia ci aveva fatto credere che il pericolo fosse superato, abbiamo accantonato le discussioni sul futuro dell’Europa e ci siamo coccolati con un rinnovato ottimismo europeista, comunitario, moderato. Non c’è stata eccessiva leggerezza – anche se la tentazione a non tormentarsi troppo con gli agenti destabilizzatori è sempre alta – ma una nuova consapevolezza: se riusciamo ad andare alle origini del populismo, a curare le cause della protesta, il rischio di implosione sarà disinnescato. Poi è arrivato il voto italiano, laboratorio innovativo di una convergenza inedita tra populismi di destra e di sinistra, e ci siamo ritrovati ancora a riflettere e dibattere sull’essenza stessa della democrazia e delle sue dinamiche, nel momento in cui il centro moderato riformatore progressista s’è scoperto disabitato.
Si parla molto di un libro uscito in America con il coordinamento di Cass Sunstein, professore di Chicago grande amico di Barack Obama (fu anche il suo «zar delle regolamentazioni») considerato uno dei massimi esperti dell’economia comportamentale, quella branca dell’economia fresca di Nobel che si occupa dei comportamenti e dei loro effetti, e di come si possono orientare. Sunstein ha raccolto diciassette contributi in un libro intitolato Can it happen here? Authoritarianism in America che analizzano come si stanno evolvendo le democrazie, e se l’autoritarismo che va tanto forte in paesi potenti come la Cina e la Russia possa instaurarsi anche nel nostro occidente sazio di pace e di prosperità. Il fuoco di Sunstein è l’America: l’arrivo di Donald Trump, presidente fuori dagli schemi e dalle istituzioni animato da un’improvvisazione quasi patologica, fa temere che, tra twitt, licenziamenti spettacolari, cambi di strategia improvvisati, la democrazia americana stia scivolando nelle braccia di un uomo forte, un dittatore eletto. Nel saggio c’è molto allarmismo: la comunità degli esperti – qui lo sono soprattutto di legge e di Costituzione – è molto preoccupata del deterioramento dei pilastri dei sistemi democratici, compresi la disaffezione nei confronti delle elezioni (bassa affluenza, in America abbastanza cronica), la polarizzazione dei media e dei social media, la creazione di «bolle» non comunicanti (che era il tema del libro di Sunstain prima di questo). Ci sono alcuni paralleli storici – l’ascesa di Napoleone III – e la certezza che l’avanzata di un leader autoritario sarebbe comunque molto lenta, ma non sfugge il fatto che molti analisti anche altrove stanno dicendo, pur magari senza condividere l’analisi, che l’antidoto migliore al populismo finora trovato è proprio il leader autoritario. Se a questa constatazione si aggiunge il fascino che l’uomo forte ha ricominciato a esercitare sull’elettorato, in quel cortocircuito pericoloso per cui un leader saldo e determinato e democratico – come un Macron per dire – viene criticato perché troppo potente, diventa più credibile anche il continuo allarmismo.
La stragrande maggioranza degli esperti continua però a pensare che il sistema democratico americano contenga gli anticorpi all’autoritarismo: a volte si può pensare che uno scossone come Trump sia senza precedenti, ma è pur vero che la scansione temporale ravvicinata delle elezioni – quest’anno ci sono le mid-term, e ancora non abbiamo digerito il 2016 – e un dialogo istituzionale solido hanno tutto il potenziale per risultare infine decisivi come argine al caos programmatico del presidente. Secondo l’«Economist», è molto più a rischio un paese come il Regno Unito, che pure è convinto di avere «un’immunità contro l’estremismo»: i prossimi cinque anni possono testare i limiti di questa immunità, scrive il magazine britannico (è la rubrica Bagehot, scritta da Adrian Wooldridge).
C’è l’attacco al sistema elitario del Labour di Jeremy Corbyn, che ha reintrodotto nel dibattito inglese la miccia della lotta di classe; c’è il dominio della «volontà popolare» ribadito dai sostenitori della Brexit, che ribalta gli equilibri di potere dei rappresentati del popolo; c’è la vulnerabilità nei confronti degli choc globali, acuita dal negoziato sull’uscita dall’Ue che impedisce, tra le tante cose, di ridefinire il ruolo del Regno nel mondo. La proporzione di inglesi che sostiene un uomo forte oggi è passata dal 25 per cento nel 1999 al 50 per cento, e la nuova generazione di elettori è visibilmente più portata a criticare la democrazia, a sottolinearne i limiti, rispetto ai propri genitori. Può dunque accadere qui che l’autoritarismo abbia il sopravvento? La risposta è sì, più a Londra che a Washington, anche se non è un processo repentino, tempo per accorgersi delle derive, e contrastarle, ancora c’è.