Esiste una coerenza nella politica estera degli Stati Uniti, oggi? O ci sono diverse logiche e personalismi che dettano indirizzi almeno in apparenza contraddittori? Se guardiamo alla politica verso l’Iran (Caracciolo a pagina 31) possiamo riconoscere l’impronta dei falchi dell’Amministrazione guidati dal consigliere alla sicurezza John Bolton, che già ai tempi di George Bush junior era fra chi impose la guerra all’Iraq di Saddam Hussein. Se vi accostiamo la Corea del nord, ecco emergere la volontà personale del presidente Donald Trump, certo di riuscire a convincere il dittatore e «amico personale» Kim Jong-un a rinunciare all’atomica per fregiarsi di un successo laddove tutti i precedenti presidenti hanno fallito. E così ci troviamo nella paradossale situazione in cui gli Stati Uniti hanno denunciato l’accordo sul nucleare con l’Iran (che impedisce a Teheran di dotarsi dell’arma atomica), dal quale ora intendono uscire anche i persiani, mentre viene data fiducia al sanguinario dittatore nordcoreano che fino a ieri minacciava di lanciare missili balistici dotati di testate nucleari sulle città degli Stati Uniti.
Se poi aggiungiamo le velate minacce di un intervento militare in Venezuela contro il regime di Nicolas Maduro, viene da chiedersi che fine ha fatto la politica di non intervento nelle crisi mondiali declamata dal presidente Trump prima della sua elezione, quando affermava che «dobbiamo smetterla di rovesciare regimi di cui non conosciamo nulla... e interrompere questa spirale di interventi e caos»: il rafforzamento delle sanzioni contro l’Iran, in particolare l’embargo sulle esportazioni di petrolio persiano, e l’aver dichiarato organizzazione terroristica le Guardie della rivoluzione iraniane un mese fa stanno spingendo Stati Uniti e Iran sull’orlo di uno scontro armato dalle conseguenze imprevedibili, o comunque a conflitti armati per interposta persona (Teheran sembra stia spingendo i suoi alleati in Iraq e in Siria, in particolare gli sciiti libanesi di Hezbollah, a compiere attacchi contro le truppe americane in Medio Oriente).
Più coerente e condiviso da tutto l’establishment statunitense, anche dai democratici, è il pugno duro di Trump con la Cina (Rampini a pagina 32). In questo caso, la guerra dei dazi, la richiesta a Pechino di una politica commerciale meno aggressiva, di una vera apertura dei mercati, di una cessazione del sistematico furto di know how tecnologico, l’intenzione di impedire l’ascesa della Cina a leader nell’intelligenza artificiale, a un ruolo di supremazia mondiale tout court, è nell’interesse nazionale americano. Tuttavia, mettere nell’angolo il presidente cinese Xi Jinping, facendogli perdere la faccia come sta facendo Trump, comporta dei rischi di instabilità nel grande paese asiatico. Come ha scritto sul «New York Times» (8 maggio 2019) il professor Yi-Zheng Lian, Xi Jinping potrebbe aver sfidato gli americani in modo troppo duro e troppo presto, lo stesso errore che fece Mao Tse Tung a suo tempo con i sovietici: l’aggressività militare mostrata nel Mar cinese e altrove, la sbandierata volontà di diventare entro metà secolo la superpotenza dominante, di cui la Belt and Road Initiative e gli sforzi nell’alta tecnologia sono gli emblemi, ha provocato una reazione decisa da parte americana. Essendo gli Stati Uniti tuttora i più forti, una sconfitta di Xi Jinping potrebbe causare la sua caduta, in un momento in cui i problemi strutturali interni della Cina (economici, demografici, sociali) sono tutt’altro che risolti.