Piccoli uomini, grandi donne

/ 28.10.2019
di Orazio Martinetti

Il suffragio femminile fu «concesso» in Ticino cinquant’anni fa, il 19 ottobre, dalla popolazione maschile. Concedere, quasi fosse un buffetto paterno, un gesto di benevolenza, non un frutto di una ben precisa concezione dei diritti politici e civili con validità «erga omnes», ossia per tutti, uomini e donne una volta raggiunta la maggiore età. A rileggere oggi le motivazioni dei contrari vien da sorridere, un sorriso, per la verità, un po’ amaro. Ma allora la disputa teneva banco nei bar e nelle redazioni dei giornali. Naturalmente erano pochi coloro che si opponevano per inveterata misoginia; i più paventavano guasti irreparabili per l’intera collettività, la corruzione della morale, l’erosione dei valori tradizionali. Rifiutare il diritto di voto, insomma, voleva dire salvare la donna stessa dai miasmi della politica, una pratica che non si confaceva al gentil sesso, fatta di intrallazzi, manovre meschine, invidie, brutte parole. Meglio non farsi contagiare; meglio dedicarsi al marito e all’educazione della prole, questa sì meritoria, e alle attività di volontariato.

All’estero naturalmente prevalevano incredulità e sarcasmo. La Svizzera, paese modello, agli occhi di molti «la più antica democrazia del mondo», ancora escludeva la metà dell’elettorato dalle urne, al pari di un qualsiasi staterello dell’Africa nera. Negli anni Sessanta un acuto osservatore, lo storico Herbert Lüthy, qualificò la Confederazione come il paese più arcaico dell’Occidente: «determinati tratti della sua mentalità e delle sue istituzioni risulterebbero più comprensibili ad un congolese (per il quale la tribù e il villaggio coincidono con il mondo) che ad un vicino appartenente alla Repubblica francese una e indivisibile; il fatto è che le strutture fondamentali di questo paese risalgono ad un’epoca che ancora non conosceva il concetto moderno di Stato».

Il ’69 (sul piano cantonale) e il ’71 (sul piano nazionale) impressero un’accelerazione ad un processo di emancipazione dai vincoli patriarcali in corso da tempo sotto la crosta della società; segnò una tappa fondamentale lungo il cammino che anno dopo anno permise alle donne di forare il «soffitto di cristallo» che le teneva prigioniere. Un percorso lungo, faticoso ma ormai inarrestabile, che uno studioso americano, Ronald Inglehart, riassunse nella formula di «rivoluzione silenziosa». Ma raggiunta la parità in fatto di diritti politici, rimaneva da conquistare la piena uguaglianza nel campo delle retribuzioni, sancita dalla Costituzione (articolo 8, paragrafo 3: «Uomo e donna hanno diritto a un salario uguale per un lavoro di uguale valore») ma ancora ampiamente disattesa dalle imprese e perfino dall’amministrazione statale.

Anno mirabile per l’altra metà del cielo, il 1969 fu invece infausto per le sorti del territorio. Alcuni mesi prima infatti, il 20 aprile, una larga maggioranza di cittadini aveva affossato la Legge urbanistica, voluta dal governo e dal Gran consiglio per finalmente arginare la galoppante speculazione fondiaria ma osteggiata dal fronte degli interessi organizzati. Un anno dunque cerniera, il ’69, nella cui arena politica confluirono istanze opposte, aperture e chiusure, radicate resistenze e slanci progressisti, una fase che – anche sulla spinta della contestazione studentesca in atto in Europa e negli Stati Uniti – finì per determinare uno scontro generazionale all’interno dei partiti storici e una dolorosa scissione nel campo socialista (nascita del Partito socialista autonomo). La questione del suffragio non era comunque centrale per alcuni settori della sinistra extra-parlamentare; anzi, molti – seguendo uno slogan del movimento maoista, ripreso e diffuso da Sartre – ritenevano che le elezioni fossero una trappola per gonzi («élections, piège à cons»), e quindi non degne di figurare in un programma rivoluzionario…

Cinquant’anni dopo parrebbe venuto il momento di estendere il voto ai sedicenni, al fine di controbilanciare lo strapotere degli anziani, sempre più numerosi. La discussione, filtrata dall’Italia, non accalora gli animi più di tanto. Finora solo Glarona ha osato compiere questo passo. A nostro parere sarebbe più utile, e più giusto, concedere questo diritto agli stranieri che sono presenti sul territorio nazionale da ben oltre sedici anni, lavorando e pagando le tasse. A Neuchâtel è possibile sia nei singoli comuni che nel cantone. Ma per ora tutto tace su questo fronte; non è un argomento popolare (viva la democrazia, ma non per tutti), e i partiti lo evitano per tema di perdere consensi.