Percorsi diversi

/ 20.05.2019
di Maria Bettetini

Tra gli studenti, non sono poche le ragazze coperte da un velo, più spesso un foulard drappeggiato con eleganza. Ci sono anche studenti musulmani maschi, più difficilmente riconoscibili. Tutti loro sono semplicemente studenti, quindi come tali formano gruppetti e arrivano in ritardo. Non parlano tanto della contrapposizione tra le culture occidentale e orientale. D’altra parte le guerre di religione non avvengono mai per motivi religiosi, e i miei ragazzi vogliono solo una laurea per poter lavorare, non mi pare che siano «contro».

Alcuni ricchi e crudeli rappresentano invece il peggio dell’Islam, spesso si dà la colpa al tempo: tra sei secoli anche l’Islam sarà «moderno», deve fare il suo cammino, così come è stato per la civiltà «occidentale». Che ragli di gatto, direbbe un mio professore del liceo. Questa idea delle tappe necessarie di un percorso, del ripetersi dell’uguale se pur in differenti situazioni, sappiamo da dove viene e ha fatto il suo tempo. Colui che a Hegel sembrò lo Spirito del mondo a cavallo, Napoleone Bonaparte, a noi risulta essere un geniale megalomane militare, morto triste, solo e sconfitto. Quindi non si deve chiedere a una civiltà di ripetere il percorso di un’altra.

E non parliamo di «due» civiltà, tante volte si è già detto dell’impossibilità di separare chirurgicamente un «noi» da un «loro», in qualunque gruppo ci si voglia riconoscere. Il nucleo del problema è un altro, in vista di una migliore comprensione, reciproca, e accettazione, reciproca, dell’Islam: nulla cambierà, non fra sei e non fra seicento secoli, se la lettura del Corano rimarrà letterale e basata sulle prime spiegazioni (non interpretazioni) pratiche, avvenute nei primi secoli dall’ègira, dalla fuga del Profeta da Mecca verso quella che poi sarà Medina, nel settembre 622, che segna la nascita della nuova religione.

Se le vite del Profeta e dei califfi «ben guidati», i primi quattro, sono intese come esemplari in senso stretto e se in generale il riferimento è sempre a un passato non interpretabile e non rivedibile, tutti i tentativi di moderazione, import-export della democrazia, apertura, dialogo sono destinati a scontrarsi con i muri della tradizione o altro, come la quasi divinità dell’imam (per non far torto a Sunniti né a Sciiti).

Chiaramente le teorie di al-Farabi, tra nono e decimo secolo della nostra era, chiudono ogni discussione: il governo deve essere dell’imam, che è profondo metafisico e teologo (come i re-filosofi di Platone), che è quasi divino, scelto da Dio, infallibile, profeta (tutte caratteristiche non dei re-filosofi). Inoltre la virtù deve essere esportata con le armi e la forza. Non solo per difesa (questa sarebbe la «guerra giusta» di Sant’Agostino), ma per portare un bene maggiore a chi non lo possiede o non lo vuole, senza però scomodare la jihad: al-Farabi infatti non accenna all’esportazione dell’Islam e parla di guerra come harb.

Prima di al-Farabi, prima che la sua Baghdad diventasse centro di potere e sapere musulmano, i due secoli immediatamente successivi alla morte del Profeta (632 d.C.) hanno visto la velocissima espansione dell’Islam sulle coste del Mediterraneo, favorita dalla stanchezza dei Bizantini e dei regni romano-barbarici, dall’oppressione delle tasse, dalla povertà, dalla poca organizzazione degli assaliti, che in diverse occasioni hanno ufficiosamente aiutato gli assalitori. Che si porti la religione, oltre che il normale saccheggio e nuove forme di governo, è scontato. Non perché lo stato islamico sia teocratico, piuttosto perché la religione, in particolare i sacri testi, hanno la soluzione a tutti i problemi, di ordine privato e pubblico, familiare e politico. Perché, dunque, cercare altrove? O permettere a chi sbaglia di continuare a sbagliare?

Dicono che sia stato questo il motivo per cui ciò che restava della Biblioteca di Alessandria, già devastata ai tempi di Giulio Cesare, sia stato definitivamente bruciato per scaldare i soldati, quei papiri non avrebbero contenuto nulla di buono che non fosse già nel Corano. Ma queste sono probabilmente leggende. Piuttosto, si consideri come queste truppe di beduini, abili cavallerizzi, si impossessano del Vicino Oriente fino a Costantinopoli, dell’Africa del Nord e dell’Europa del Sud fino alla Provenza e alla Sicilia. Recentemente mi è stato detto che per alcune pratiche amministrative avrei dovuto rivolgermi a Muhamed. Vedo un giovane dalla pelle scura, capelli e barba neri come la pece, portamento fiero, e lo apostrofo: sei Muhamed, vero? Risposta: no, Gennaro sono. Nato in Campania, accento locale, trasferito a Milano per lavorare. Sembrava un moro, un corsaro, un pirata barbaresco, non è difficile pensare ai suoi avi come tali, anche se lui Gennaro è.