L’Umbria non è l’Ohio d’Italia, non è lo Stato o meglio la Regione decisiva per le sorti della nazione; però non c’è dubbio che domenica scorsa qualcosa di importante sia accaduto.
In tanti, forse in troppi, avevano dato Matteo Salvini per finito. E in effetti quest’estate il leader della Lega aveva sbagliato tutto. Ci si attendeva che su di lui, una volta lasciato il Ministero dell’Interno, sarebbe caduta una pioggia di guai giudiziari, a cominciare dall’inchiesta sulle tangenti chieste da un suo uomo a interlocutori russi all’hotel Metropol di Mosca. Ma in questo momento Salvini ha ancora il consenso di molti italiani. I risultati umbri sono impressionanti: in una regione in cui fino a qualche anno fa era assente, la Lega ha sfiorato il 40 per cento, nonostante la candidata presidente avesse presentato una propria lista. Certo, gli scandali che hanno affondato la precedente giunta di sinistra hanno senz’altro influito. Ma il voto umbro aveva oggettivamente una valenza nazionale.
Per la prima volta il partito democratico e il movimento Cinque Stelle presentavano una candidatura comune. Il risultato è stato disastroso. Il Pd è arretrato, sia pure di poco, rispetto alle elezioni Europee del maggio scorso. I grillini hanno dimezzato i voti. All’evidenza, il loro elettorato di destra, o comunque di protesta, li ha abbandonati a favore di Salvini.
Renzi è rimasto a guardare. E ora teorizza che il governo è più forte, perché tutti hanno capito che non c’è alternativa: o si va avanti sino alla fine della legislatura, o si consegna l’Italia alla Lega con il voto anticipato. Ma non è così semplice. Visto che con il sistema maggioritario l’alleanza giallorossa non ha funzionato, Renzi, Conte e Di Maio spingeranno per una riforma elettorale in senso proporzionale, che non li costringa ad allearsi prima del voto e disinneschi l’effetto trascinante che i collegi uninominali avrebbero per il partito più forte, appunto la Lega. Ma il partito democratico nasce con e per il maggioritario. I padri fondatori, da Prodi a Veltroni, sono contro il proporzionale; e lo stesso Zingaretti ha fatto una professione di fede contro la frammentazione e i partitini. In queste condizioni, portare a casa una riforma così delicata, con Di Maio che fatica a controllare i gruppi parlamentari, sarà davvero difficile.
La vera questione però riguarda l’economia. Il Paese è fermo: crescita zero, sia economica sia demografica. Il governo Conte bis è nato in fretta ma è partito piano. Troppo. Discussioni sulle merendine. Una spy-story che prima viene chiarita meglio è, a cominciare dai sospetti incrociati tra Conte e Renzi di aver usato i servizi segreti pro e contro Trump. Una manovra poco ambiziosa, da ordinaria amministrazione. E segnali di freddezza tra leader e leaderini; come se la bussola della vita pubblica continuassero a essere gli interessi personali, gli stessi che hanno portato alla coalizione giallorossa.
Quando Salvini ha rotto l’alleanza aprendo la crisi di agosto, tutto lasciava credere che le elezioni sarebbero state inevitabili. Il primo a scartare è stato il più interessato a evitare il voto, Matteo Renzi, proponendo – proprio lui, il nemico dei 5 Stelle – un «esecutivo istituzionale» che su 5 Stelle e Pd si sarebbe dovuto inevitabilmente reggere. Il secondo è stato Beppe Grillo, liquidando Renzi come «avvoltoio tentatore» ma di fatto benedicendo il suo disegno. A quel punto Zingaretti ha realizzato di non poter lasciare che la situazione precipitasse verso la scontata vittoria di Salvini.
Anche in questa circostanza, il Pd si è proposto come partito «di sistema». Poco importa, dal punto di vista dei suoi dirigenti, se supera il 40% o crolla sotto il 20: noi – ragionano – siamo gli unici che l’Europa considera affidabili, siamo gli interlocutori naturali di Merkel e Macron; già il nostro ritorno al governo tranquillizza i mercati e gli alleati. Il che, a guardare lo spread e i toni flautati di Bruxelles, potrebbe anche rivelarsi vero. Ma non basta. Non basta a un Paese sull’orlo della recessione, da cui continuano ad andarsene troppi giovani diplomati e laureati a spese dei contribuenti, e in cui continuano ad arrivare troppi disperati facile preda del crimine organizzato o degli affaristi in nero.
Piaccia o no, la questione migratoria continua a essere in testa alle preoccupazioni degli italiani, come quella della sicurezza, che all’immigrazione incontrollata viene – a torto o a ragione – collegata. E su questo terreno Salvini è imbattibile. Per questo il futuro – a meno di clamorosi colpi di scena – gli appartiene. Nella speranza che non si lasci incantare dalle sirene sovraniste e apra gli occhi: contro Berlino e contro Bruxelles non si può governare.