Per ora Cabbio batte Lugano 1-0

/ 21.10.2019
di Ovidio Biffi

Ricordate la «Val da Mücc», salutata così cinque anni fa dalla consigliera federale Doris Leuthard giunta a premiarla come «Paesaggio dell’anno»? È tempo di ritornarci, non perché chi scrive è nato lì, ma perché l’associazione Amici di Cabbio ha avuto un’idea che suggerisce un discorso più ampio, tanto da arrivare a toccare anche la grande Lugano. Dal mese scorso Cabbio, ormai frazione del comune di Breggia, si è inventata un’attrazione a km zero: partendo da una rassegna permanente di opere artistiche realizzate con il legno in un comune del Trentino, con la complicità di abitanti e proprietari dei terreni o delle case, nonché con il sostegno dell’azienda forestale regionale del Lattecaldo, a Cabbio con pezzi di legna da ardere (lo sapevate che per i tagli migliori vanno seguite le fasi lunari?) hanno creato originali accatastamenti. Così, e fino a Natale, si può percorrere un itinerario con una trentina di «installazioni» lignee sparse nel villaggio, sistemate come decorazioni esterne delle case o incastonate come «patchwork» di legno nei vani delle finestre. Niente di trascendentale, nessuna coda di visitatori; comunque una concreta espressione di estro professionale che, senza pretese, sfiora contenuti artistici.

Festa d’Autunno a Lugano. Alla domenica, ultimo giorno, ho percorso via Nassa, dal LAC a Piazza Manzoni. Dappertutto campeggia, come sempre, l’impegno delle associazioni della città o del Luganese, da quelle sportive sino alle Ong che operano in campo sociale. Folla che entusiasma i titolisti dei giornali, ma nessun entusiasmo. Riandando alla semplicità del richiamo di Cabbio, mi chiedo se la rassegna non meriti di avere anche qualche contenuto che dia un’anima e faccia da traino a quanto il visitatore trova sparpagliato lungo la via Nassa e sulle due o tre piazze del centro. Non sto cavalcando il solito spirito da bastian contrario, la mia è constatazione personale, cerco solo di mettermi nei panni di un turista che arriva da Casalpusterlengo o da Dagmersellen per la decantata Festa d’Autunno. Di certo trova cibo, bevande e altre offerte non tutte proprio legate a stagione e regione (velo pietoso su certe bancarelle da suk, purtroppo sempre presenti). Ma altrettanto di sicuro, quando lascerà la città e il Ticino, non avrà quasi nulla che gli farà ricordare – inutile parlare di incentivi a tornare – una festa che, anche se fatica a nominarli, si richiama al folclore, alle tradizioni, alla cultura popolare. Così tornando al posteggio del LAC ho provato a immaginare (eh, sì: i bastian contrari son peggio dei lupi, non perdono nemmeno il pelo...) qualche variante. Evito subito l’antico chiodo fisso di una festa diffusa in tutto il Ticino, programmata per un cantico al merlot e a chi lo produce. Penso a un mutamento logistico e privilegio il Lungolago, blindato per due o tre giorni da un SPM («Sa passa mia»), impreziosito lungo la parallela via Nassa e nelle piazze non da cantine/capannoni ma da itinerari tematici o proposte culturali. È vero, già da un paio d’anni c’è uno spazio dedicato ai patriziati (nell’atrio di Palazzo Civico, ma isolato, alquanto spento): potrebbe far da preludio a un futuro «Autunno a Lug’Amo», dedicato alle valli, ai monti e spinto magari sino all’«altra part dal lac», cioè a rivitalizzare Caprino. Dal tuffo nell’utopia riemergo con una domanda: possibile che l’idea dominante di queste feste sia sempre e soltanto un tornaconto immediato legato a turismo e commerci (molti dei quali, a guardar bene, finiscono anche per subire concorrenza...)?

Ho parlato di Lugano, ma il discorso vale anche per rassegne e feste di altri centri, tutti alla ricerca di una «envergure» libera da legacci e condizionamenti mercantili (solo Mendrisio, quasi obbligato, ha iniziato ad agire). C’è un dato che più di altri dovrebbe preoccupare chi si occupa di ospitalità: il turismo culturale rappresenta il 40% dei ricavi del turismo mondiale. Secondo gli esperti (Lucca negli stessi giorni ospitava un simposio su cultura e turismo) queste feste riavranno successo e continuità solo se riusciranno a interagire con la struttura sociale della città o della regione. Era la scintilla che, forse inconsciamente, nel secolo scorso «accendeva» le varie feste della vendemmia, delle camelie, dei rioni e delle corti ecc. ecc. , perché rispettava e favoriva il patrimonio culturale e i valori del territorio. Riusciremo a ritrovarla e a capire che non è più il tempo di ascoltare chi dice che con la cultura non si mangia? Ricordo una magnifica vignetta di Pat Byrnes: tre membri di una tribù ritratti in una caverna attorno a pezzetti di legno accatastati per terra; uno degli astanti sentenzia: «Il concetto c’è, ma senza investimenti non potremo farne niente». C’è la legna da ardere, manca la scintilla per accendere un fuoco...