L’ultimo voto europeo della carriera di Angela Merkel è stato dedicato ai principii, alla successione e ai combattimenti con la Francia di Emmanuel Macron. La cancelliera tedesca è alla fine della sua lunga storia politica, ha detto di volersi occupare ancora di Europa – perché i nazionalismi si combattono così: senza distrarsi – e così molti hanno pensato che si stesse candidando a qualche carica a Bruxelles: pare di no, si prenderà cura degli europei da Berlino, dice. Per il momento si è occupata della campagna elettorale dando prova di grande equilibrismo (non che avessimo bisogno di conferme) tra la necessità di consegnare un’Unione europea solida e quella di non essere troppo ingombrante: ha designato un successore, che è già leader di partito, Annegret Kramp-Karrenbauer, che un po’ scalpita.
Probabilmente parleremo a lungo del modello di passaggio di potere scelto dalla Merkel: a differenza dei tanti e forse fisiologici scontri che abbiamo sperimentato altrove (il Regno Unito parla per tutti anche se fare di questa sua stagione un paradigma è un torto soprattutto agli inglesi), la cancelliera ha scelto la strada senza spigoli, tutto deve sembrare naturale – bisogna anche dire che la Merkel aveva già fatto fuori i rivali politici più insidiosi, si è tenuta senza troppa fantasia ma con grande piacere il dolce alla fine. Così ha rafforzato la Kramp-Karrenbauer che pur essendo tosta non può che rimanere ancora nell’ombra della Merkel: il candidato alla presidenza della Commissione per il gruppo dei conservatori europei (il Ppe), Manfred Weber, si è appoggiato molto alla Kramp-Karrenbauer, e lei si è spesa molto per lui.
Molti eventi insieme, molto gruppo, molto imperio sulle dinamiche dei popolari europei nella gestione degli estremismi interni, quello dell’Ungheria in particolare. Ma il futuro di Weber è molto incerto, per due ragioni: la prima è che la sua campagna elettorale non è stata affatto vivace e soprattutto è stata vuota (al più grande evento che ha organizzato in Grecia c’erano addetti ai lavori, non molti altri e per un voto che ha come grande problema l’affluenza e la mobilitazione non è il massimo); la seconda è che il processo dello Spitzenkandidat – il candidato del gruppo che vince le elezioni diventa presidente della Commissione – è altamente compromesso. E qui c’entra la Merkel e c’entra il fatto che, al Consiglio europeo in cui si comincerà a parlare di nomine questa settimana, ci sarà la cancelliera a negoziare, non la sua delfina né tantomeno Weber.
Nel 2014, quando il meccanismo degli Spitzenkandidaten è stato introdotto (è una procedura), la Merkel aveva cercato di ostacolarlo: non voleva Jean-Claude Juncker alla presidenza della Commissione. Poi cedette, ma è improbabile che lo faccia anche questa volta perché il rafforzamento dell’Ue passa soprattutto dalla scelta dei propri leader: un altro «burocrate senza faccia», secondo la definizione dei sovranisti, come leader comincia a essere politicamente insostenibile. Ecco perché il totonomine – che è ciò cui si deve guardare d’ora in avanti, dopo la conta elettorale – è così acceso, e gli stessi leader lasciano intendere preferenze più o meno vaghe (sulla commissaria alla Concorrenza, la liberale Margrethe Vestager, ne convergono molte).
In questa fase, la Merkel farà sentire la sua presenza, non tanto per spingere questo o quella candidata, ma per conservare la guida tedesca dell’Europa. La Francia di Emmanuel Macron sta diventando sempre meno allineata a Berlino: non è necessariamente ostile, ma di certo sta riequilibrando il proprio rapporto con la Germania, e questo ha molto a che fare con il fatto che Macron è al secondo anno di presidenza e la Merkel probabilmente all’ultimo da cancelliera. Pur condividendo gli stessi principi e la stessa visione liberale, le divergenze tra i due sono parecchie, e finora le reticenze tedesche hanno avuto un effetto concreto evidente: la creazione di una grande alleanza progressista, come era nei programmi di Macron (il modello En Marche esportato in Europa), non è riuscita. Le famiglie europee sono rimaste tali, a parte l’unione dell’Alde liberale e del partito di Macron: una coalizione «produttiva», come la chiama Macron, potrebbe diventare necessaria, ma senza la collaborazione dei conservatori tedeschi risulterebbe meno efficace. Anche in questo caso la Merkel sarà ancora decisiva: subito potremo cominciare a rimpiangerla, anche se in segreto lo facciamo già da un po’.