Il 27 agosto saranno trascorsi 70 anni da quando Cesare Pavese mise fine alla sua vita. Nato a Santo Stefano Belbo il 9 settembre 1908, 12 giorni dopo avrebbe compiuto 42 anni. Totalmente immerso nel suo mestiere di scrittore, tanto da non lasciare margini alla vita, Pavese è più vivo che mai. Mentre quell’intellighenzia romana che negava il suo valore, Moravia per primo, è morta per sempre.
Noi, avendo iniziato a leggerlo durante l’adolescenza, siamo stati stregati dalla sua parola mitico-evocativa, in bilico fra la pagana vitalità della campagna vissuta nell’infanzia e la laica ma costrittiva vita cittadina, schiacciati dal senso del dovere. Se in questi 70 anni la sua opera ha continuato a generare studi, traduzioni, mostre e convegni in tutto il mondo e ha ispirato musica, pittura, teatro, cinema, performance, lo si deve a Franco Vaccaneo.
Nato anche lui a Santo Stefano Belbo nel 1955, era in prima elementare quando ha assistito all’inaugurazione del monumento a Pavese, a cui ha dedicato 44 anni della sua vita, dal 1975 al 2019, fondando la Biblioteca e il Centro Studi dedicato allo scrittore diventato in seguito Fondazione. Leggendo le cronache di un’interminabile sequenza, tuttora in corso, di mostre e convegni dedicati allo scrittore non solo in tutti i paesi d’Europa ma anche al di là dell’Atlantico, viene spontaneo riflettere sul fatto che Pavese non è mai salito su un aereo, non ha mai varcato un confine, di sua iniziativa si è spinto solo da Torino fino a Roma, obbligato dalla condanna al confino per attività antifascista ad arrivare scortato a Brancaleone Calabro. Una spiegazione ce la fornisce il sociologo Franco Ferrarotti, amico di Cesare e felicemente arrivato ai 93 anni: «Pavese riteneva il viaggiare uno spreco inutile».
Da una prima sede in un locale inutilizzato del municipio, si passa a una struttura edificata su un campo da tennis che si trovava in riva al Belbo. Il 4 novembre 1994 è un sabato e piove da giorni; alle 20 e 30 il fiume esonda e invade i locali. Con uno sforzo immane e con l’aiuto di tutti i compaesani si riesce a salvare i manoscritti immersi nel fango, compreso il messaggio d’addio vergato sul frontespizio di una copia de I dialoghi con Leucò, il libro più amato dal suo autore. Diceva: «Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi». (Pavese conosceva i suoi amici, non dice non fate pettegolezzi ma non fatene «troppi»). Lascia in quella stanza dell’albergo Roma anche l’ordinatissimo manoscritto del suo diario, provvisto del titolo Il mestiere di vivere e di esergo, una citazione dal Re Lear, «La maturità è tutto», un controcanto per uno rimasto adolescente e immaturo per tutta la breve vita.
I manoscritti inviati al centro del restauro ritornano intatti. Perché sono così importanti? Risponde colui che li ha voluti in mostra: «Dai manoscritti si può osservare l’officina di uno scrittore che alla pagina affidò tutto se stesso, senza infingimenti e senza finzioni. Scrivere è parlare da soli e parlare a una folla». Con l’avvento della scrittura digitale scompare il fascino dei manoscritti, lo studio delle varianti, dei ripensamenti, delle cancellazioni. Tutti gli scrittori di questo nostro tempo provvedono a memorizzare l’ultima versione senza preoccuparsi di salvare o di stampare la precedente.
Primo Levi è stato fra i primi ad adottare la scrittura elettronica, perché gli dava un enorme fastidio sapere che qualcuno sarebbe andato a frugare nella sua officina creativa. Nel Centro Studi si dà conto anche del grande lavoro svolto da Pavese come colonna della casa editrice Einaudi. In quella stagione di ferro, mentre gli altri dirigenti erano allineati sul fronte marxista leninista, Pavese dà vita alla «Collana Viola» avendo come compagno d’avventura Ernesto De Martino, pubblicando studi sul folklore, sulle tradizioni popolari, sul sacro, con autori non allineati come Carl Gustav Jung, Karl Kerényi.
Con la distruzione della sede del Centro Studi un altro al posto suo si sarebbe arreso, ma Franco Vaccaneo è di fibra langarola e convince l’amministrazione comunale a destinare la chiesa sconsacrata dei Santi Giacomo e Cristoforo dove il piccolo Cesare era stato battezzato, a nuova sede del Centro Studi diventato Fondazione nel 2006. Tutti coloro che sono stati ospiti per poco o per tanto tempo nella foresteria, concordano nel testimoniare che in quel luogo si respira un’aria speciale che stimola senza sosta idee e progetti che trovavano in Franco Vaccaneo un sostegno entusiasta. In quelle stanze regna sovrano un sentimento di inossidabile amicizia.
Questa storia esemplare è ora raccontata nel libro Cesare Pavese e gli altri sotto forma di una lunga intervista fatta dalla studiosa e traduttrice rumena Mara Chiritescu. Franco Vaccaneo si congeda dal lettore con queste parole: «La vita che ho vissuto con Pavese e per Pavese è stata la mia unica vita e non saprei immaginarne altre. Per me è stato un maestro ma anche un compagno di strada».