L’Italia è ricca di inventiva, com’è noto. Ma l’idea delle «Olimpiadi delle Alpi», da Torino a Cortina passando per Milano (praticamente un viaggio di un giorno), è forse fin troppo fantasiosa.
Fin da Atene 1896, quando il barone De Coubertin fece rivivere il mito dell’antica Grecia, le Olimpiadi si sono assegnate a una città, non a un Paese. È sempre stato così, è uno dei motivi del fascino dei Giochi. Quasi sempre l’Olimpiade ha giovato alla città che l’ha ospitata. Nel 1948 Londra celebrò la sua ricostruzione, il 1960 simboleggiò il miracolo economico di Roma e dell’Italia, nel 1992 Barcellona si riprese il mare, nel 2008 Pechino disse al mondo che era diventata la capitale di una superpotenza; e dopo il successo del 2012 Londra è diventata la città più visitata al mondo, superando Parigi e New York. In scala minore, i Giochi invernali del 2006 (al di là di qualche impianto sovradimensionato e di altri poi abbandonati) furono un segno della rinascita di Torino. Ricordo la cerimonia di inaugurazione nello stadio Comunale, quello delle vittorie della Juventus, ribattezzato per l’occasione stadio Olimpico. I torinesi, di solito cauti al limite del pessimismo, parevano aver cambiato umore. Il resto del mondo si accorse che una città considerata grigia era ed è in realtà bellissima. Fu l’inizio di un periodo positivo; che purtroppo è finito da tempo.
Sulle Olimpiadi invernali del 2026 l’Italia ha fatto un pasticcio. Milano prima si è aggiunta, poi si è sfilata, infine è tornata; e Torino sembra – a meno di nuove sorprese – uscita di scena.
Il fallimento ha molti padri, ma ha anche una madre: la sindaca Chiara Appendino. Non è certo lei, lo ripeto, l’unica responsabile. Ma l’esitazione di Torino è stata fatale; nel momento in cui entra in gioco Milano, è evidente che il suo peso è maggiore. La Appendino fin dall’inizio è apparsa una grillina anomala: figlia di un industriale importante, un passato amministrativo alla Juventus, un linguaggio non aggressivo, esprimeva l’esigenza di un rinnovamento senza rottura con l’establishment subalpino. Non a caso la sindaca aveva preso una posizione giusta, a favore dei Giochi, diversa dal No ideologico della giunta grillina a Roma; ma la spaccatura nella sua maggioranza è costata tempo prezioso. Più in generale, non mi sembra che Torino abbia ritrovato la fiducia e l’energia del decennio precedente. L’arrivo di Cristiano Ronaldo ha entusiasmato gli juventini e creato curiosità all’esterno; ma sono ben altre le incognite che pesano sul futuro della città che ha fatto l’Italia. Compresa quella che riguarda Fiat-Chrysler.
Per quanto riguarda la politica, le difficoltà della Appendino – compreso il disastro della notte della finale di Champions, con la sindaca in tribuna a Cardiff e piazza San Carlo devastata – conferma l’impossibilità del grillismo di essere normale. Di Maio, il simbolo della normalizzazione del movimento, convertito alle ragioni delle alleanze e del governo, è ora in difficoltà. Certo, il Pd e Forza Italia sono messi ancora peggio. Ma i Cinque Stelle patiscono la Lega. Salvini ha un altro schema di gioco, l’alleanza con Berlusconi e la Meloni; Di Maio no. Può sperare che Zingaretti prenda il controllo del Pd e apra il dialogo con i Cinque Stelle; ma i renziani non potrebbero mai votare un governo che si reggesse sull’alleanza tra dem e grillini. A quel punto Renzi uscirebbe dal partito; e per il nuovo esecutivo non ci sarebbero i numeri in Parlamento. Quando poi si capirà che il reddito di cittadinanza – bandiera dei grillini – è una chimera, allora la bolla populista comincerà a sgonfiarsi. Ma nel frattempo avrà fatto parecchi danni.