Parole e pietre

/ 28.01.2019
di Paolo Di Stefano

Gli ultras delle curve, per esempio quelli coinvolti negli scontri di San Siro nel mese di dicembre, hanno vite quotidiane da brave persone. Poi, il sabato e la domenica, si armano di coltelli e di slogan neonazisti, pronti ad aggredire i tifosi avversari e persino a morire, com’è accaduto a Daniele Belardinelli, investito da un’auto durante la guerriglia urbana tra interisti e napoletani. Belardinelli aveva trentanove anni, faceva il piastrellista, aveva una moglie e due figli, era appassionato di arti marziali ed era leader di un gruppo che si chiama «Blood & Honour», sangue e onore. Dopo un conflitto con la polizia, nel 2007, gli fu impedito per cinque anni di accedere in uno stadio. Un suo zio l’ha definito un «ragazzo solare», molti lo ricordano come un tipo tranquillo.

Ci sono altre brave persone, «solari» come tante, che non frequentano gruppi organizzati neonazisti ma si trasformano ugualmente in ultras nelle situazioni più impensate. È il caso di alcuni genitori quando vogliono difendere il «sangue» e l’«onore» dei loro pargoli: la scorsa settimana, in una palestra di Carpenedolo, un paese della Bassa Bresciana, durante una partita di basket del campionato Under 13 maschile, accade che l’arbitro, coetaneo dei giocatori, cioè tredicenne alle prime armi, viene coperto di insulti per aver fischiato dei falli dubbi.

Chi urla? Chi inveisce? Non i giocatori ma i loro genitori, madri e padri che seguono il match dalle tribune armati non di coltelli ma di parolacce e di improperi. L’allenatore della squadra di casa, che peraltro si trova in vantaggio, cerca di calmare gli adulti scalmanati, ma per tutta risposta si becca la sua dose di insulti con il gentile invito a vergognarsi. Ha venticinque anni, è arbitro a sua volta in una categoria superiore e conosce il galateo sportivo. Dunque cosa fa? Si rivolge al suo minicollega e annuncia che, stando così le cose, ritira la squadra ben sapendo che subirà una penalizzazione e che perderà 0-20 a tavolino. Poi spiega ai suoi ragazzi le ragioni della decisione: la giustizia sportiva può assegnarti una sconfitta a tavolino, ma la vittoria morale vale di più: 100-0 contro mamme e papà. Bella lezione: voto 6+ all’allenatore Marco Giazzi, inclassificabili i genitori-ultras che lasciano la palestra mugugnando (in attesa del prossimo arbitro da insultare). Sarebbe utile sospenderli dall’accesso alle palestre dei figli, ma non sufficiente. Bisognerebbe rieducarli o educarli ex novo al mestiere di padri e madri, cioè di educatori. E di cittadini. Il timore (legittimo) è che si tratti di un’impresa titanica.

Nel nuovo numero del mensile di psicologia e neuroscienze «Mind» (voto 5+), lo psicologo dell’Università di Bordeaux Grégory Michel racconta la storia di Lola, una tredicenne il cui obiettivo è fare una grande carriera da ginnasta, ma il cui sogno di gloria si infrange contro lo spettro dell’anoressia. Da atleta di livello nazionale, Lola diventa una persona malata (il suo disturbo, la dismorfofobia, le fa detestare il suo corpo, che in alcune parti percepisce troppo grosso pur essendo di una magrezza spaventosa). Scavando nel malessere della ragazza, il professor Michel scopre che alle sue spalle c’è una famiglia che ha puntato tutto sul successo di Lola.

La madre (2) dice: «Lola deve impegnarsi a dare sempre il meglio, perché è una grande sportiva», per questo è pronta a cambiarle allenatore e se non va bene neanche il secondo è lei stessa a farne le veci. La «sindrome di successo per procura» nasce dal desiderio estremo dei genitori di veder riuscire i propri figli: mamme e papà competitivi, assatanati, genitori ultras che ambiscono a ogni costo alla perfezione della loro prole, fino a offendere o a rimuovere chiunque venga avvertito come un ostacolo sulla via della gloria (per procura).

Al di là dei casi clinici, la domanda è: se i modelli, quali dovrebbero essere i genitori, sono questi, cosa ne sarà degli educandi, cioè di tutte le Lole del mondo? Si può solo sperare che i figli tornino a ribellarsi ai padri, com’è avvenuto mezzo secolo fa per ragioni politiche. Ma questa volta che sia una ribellione non contro la politica e le idee degli adulti, ma (più banalmente?) contro il loro comportamento. Più che ribellione, sarebbe un’autentica rivoluzione generazionale: la più auspicabile. Del resto i giovani si sono sempre giovati, da che mondo e mondo, di modelli degni di essere emulati nella sfera privata come nella sfera pubblica: ma come si fa a imitare, a titolo di esempio, un leader politico che ogni tre per due dichiara: «Io non prendo lezioni da nessuno!». Come può essere credibile un tipo che si vanta di non dover prendere lezioni da nessuno? C’è da temere che sia un megalomane o un mitomane che ha perso il controllo di sé e delle parole. E nel dubbio tra megalomania e mitomania, voto: 1.

Le parole pesano. Sono pietre, diceva Carlo Levi. E se le parole sono pietre, chi le lancia a casaccio va considerato alla stregua di un ultras anche se non milita in «Blood & Honour».