Tra gli esercizi di curiosità del vivere quotidiano c’è indubbiamente l’osservazione dei cambiamenti della moda. Luigi ci fa caso ma non da molto tempo, in verità. Dev’essere che col passare degli anni si evidenzia nelle persone una vena contemplativa. Lo colpisce in particolare questa curiosa voga del pantalone strappato sulla coscia. Da parte sua ricorda i brontolii di una nonna d’antan che era costretta dalle insistenze del nipote a rammendare all’inverosimile vecchie paia di jeans sbiaditi e martirizzati per l’uso.
Nell’anno delle rievocazioni per il Sessantotto ci si dimentica forse di ricordare come quella temperie culturale fosse stata anche un importante spartiacque nel settore dell’abbigliamento. I giovani rifiutavano gli abiti «buoni», confezionati magari dalle sapienti mani delle donne di famiglia, per preferire indumenti alla moda acquistati nei grandi magazzini e utilizzati poi allo spasimo. Luigi ricorda ancora a distanza di decenni i suoi primi jeans, che andarono a sostituire i pantaloni grigi cuciti a mano con tessuto solido e affidabile, ma incomparabilmente meno affascinanti.
La rivoluzione sociologica di quegli anni portava a un’inattesa omologazione nel codice dell’abbigliamento. E alla fine, sentendosi molto originali, ci si vestiva tutti allo stesso modo: cadute (o apparentemente in procinto di cadere) le barriere di classe, nel grande calderone della nuova società libera che sembrava stesse nascendo tutti sarebbero evidentemente stati uguali, anche negli abiti. Certo, la convinzione traeva qualche spunto dalla freschissima rivoluzione cinese e dalla decisione dei leader di allora di uniformare in modo obbligatorio il guardaroba nazionale.
I giovani europei del sessantotto avevano scelto un indumento da lavoro americano, il jeans, e lo avevano eletto a simbolo di libertà intellettuale, a espressione di una noncuranza per lo status espresso attraverso gli abiti. Allo stesso modo la scelta di indossare indumenti militari dismessi (e per quello si andava volentieri a saccheggiare il guardaroba di nonni, padri e zii) voleva indubbiamente rimarcare il desiderio di dissacrare la divisa, di umanizzare l’abbigliamento guerrafondaio, portandolo indifferentemente alle feste da ballo, a scuola, nei pomeriggi con gli amici. Il celebre «reporter» (quello più ambito aveva addirittura la scritta «USA ARMY» sulla spalla) sdoganava, del resto, nella vita di tutti i giorni le giacche dei soldati americani in Vietnam che si vedevano ogni sera alla TV, nei drammatici resoconti del telegiornale.
Il buco del pantalone di oggi come va interpretato, invece? Luigi propenderebbe per vederlo come un riferimento ad una società complessivamente omogenea, stilosamente stracciona, in cui ricchi e poveri hanno la stessa apparenza. Una società sessantottina di fatto, ma senza i correlati politico-sociologici sottostanti e senza l’idea insistente di una lotta di classe in corso. Ma forse sta esagerando: Luigi, nel suo piccolo, sospetta che si tratti piuttosto di espedienti utilizzati per mettere in mostra eventuali tatuaggi sottostanti. Con quel che costa farsi colorare la pelle, tanto vale lasciare degli spazi disponibili... Mentre ragiona di queste cose tra sé e sé Luigi viene avvicinato da una giovane vestita in modo quasi elegante, nel freddo della mattina siberiana. Si tratta in realtà di una mendicante, che, snocciolando le classiche sfortune, gli chiede un’offerta. Poco più in là ne vede un’altra rivolgersi a un’altro passante. Curioso. Anche loro fanno attenzione al dress code, ormai: solo i veri poveri, per passare inosservati, si vestono da finti ricchi...