Il 25 novembre era il 21esimo anniversario della morte di Paolo Gobetti. Nato a Torino il 28 dicembre 1925, festeggiava il suo compleanno con quello del cinematografo, nato a Parigi il 28 dicembre di trent’anni prima. Considerava la coincidenza un segno del destino. Non aveva fatto in tempo a conoscere suo padre Piero, morto esule a Parigi il 16 febbraio 1926, quando Paolo aveva 50 giorni di vita. Piero non aveva ancora 25 anni, aveva fondato tre riviste («Energie Nove», «La Rivoluzione liberale» e «Il Baretti») creato una casa editrice che arrivò a pubblicare quasi duecento titoli, dialogava alla pari con i grandi intellettuali del suo tempo. Antonio Gramsci l’aveva voluto a «Ordine Nuovo» come critico teatrale. Le bastonate inflitte dalle squadracce fasciste, inferte su ordine di Mussolini, l’avrebbero portato alla morte poche settimane dopo il suo arrivo in Francia. Paolo cresce avendo alle spalle l’ombra immensa di un padre che tutti ricordano al culmine di una giovinezza prodigiosa. Per fortuna è allevato dalla madre, Ada Prospero, che si rivelerà una grande educatrice.
Un padre e un figlio che non si sono mai incontrati si ritrovano sotto il segno dell’utopia. Per Piero era la generosa illusione che in Italia fosse realizzabile una «rivoluzione liberale». Paolo scriveva nell’aprile 1980: «Credere nell’utopia e nel suo realizzarsi è forse l’unica cosa seria che ci rimane in una società sempre più difficile». Paolo è stato un pioniere che non ha goduto della fama che avrebbe meritato perché quando le sue imprese stavano per consolidarsi e prendere un assetto istituzionale, lui cercava altri traguardi. Scherzando lo definivo «il re delle incompiute», paragonandolo a Sartre e a Carlo Emilio Gadda. Avendo assorbito la mentalità piccolo borghese della mia famiglia d’origine, trovavo scandaloso che, dopo aver superato tutti gli esami e avere completato la tesi, si fosse rifiutato di compiere l’ultimo passo e non si fosse laureato. Lui replicava che il diploma era soltanto un pezzo di carta.
Paolo Gobetti ha sviluppato la sua intelligenza e i suoi sforzi verso due poli solo in apparenza antitetici: la memoria e l’analisi dei momenti di passaggio fra una tecnologia e l’altra (dal cinema muto al sonoro, dalla pellicola al nastro magnetico). Per la «manutenzione della memoria storica» ha fondato nel 1966 l’Archivio nazionale cinematografico della Resistenza, allo scopo di salvare le immagini documentarie della e sulla Resistenza, filmando i ricordi dei testimoni di quella stagione. Maestro allergico alla cattedra, negato a ogni gerarchia, operando con l’esempio, ha calamitato collaboratori che nell’Archivio hanno trovato l’occasione ideale per dare corpo a una vocazione.
Paolo, affascinato dallo stato nascente dei fenomeni, realizzò con l’Archivio il documentario Le prime bande nel quale ricostruì, portando i testimoni sui luoghi dell’azione, l’irripetibile momento e l’esaltante sensazione di libertà provata quando, appena 18enne, seguendo l’esortazione della madre, salì in montagna. A questo proposito scrisse che la Resistenza per lui «ha costituito l’esperienza più importante e formativa, ma anche un viaggio senza domani nell’utopia». Fosse dipeso da lui Le prime bande sarebbe rimasto un’opera aperta, suscettibile di continui ritocchi e aggiunte. Un progetto che non ha visto la fine prevedeva una serie di interviste filmate ai protagonisti della cultura italiana che avevano conosciuto e frequentato Piero Gobetti, collaborando con le sue riviste e con la casa editrice. Era una grande idea: Paolo, seduto accanto alla macchina da presa poneva sempre la stessa, semplice domanda: «Com’era mio padre?».
Purtroppo i protagonisti della cultura italiana, ingessati dagli anni, dalla fama e dalla presenza inquietante per loro delle luci e degli apparati di ripresa, monumenti di sé stessi, davano risposte da manuale scolastico. Sull’impiego del materiale di repertorio nei documentari a carattere storico Paolo aveva una concezione perfettamente opposta a quella praticata nella realizzazione dei programmi televisivi. In questi i brani documentari sono inseriti in funzione del commento e come supporto di una tesi già definita in partenza. Per lui il film doveva essere uno strumento d’informazione primaria, una fonte di documenti storici insostituibili, non un semplice mezzo di divulgazione.
Un film, che gli autori se lo propongano o meno, che sia un capolavoro o un mediocre prodotto commerciale, è sempre una preziosa fonte storica e antropologica, sui costumi, sull’abbigliamento, sullo stile di vita dell’epoca. Venti anni or sono, quando Paolo Gobetti è mancato, non si aveva ancora idea di quale sviluppo avrebbe avuto l’arrivo sul mercato dei mezzi di ripresa e di diffusione planetaria alla portata di tutti. Queste considerazioni del 1993 sembrano scritte oggi: «Siamo nel meraviglioso e sconcertante periodo del caos creativo: quantità, qualità, tentativi, esperimenti, rifacimenti, imitazioni, banalità, sprazzi di genialità. È la fusione di tutto, è la confusione che può produrre un futuro». I suoi scritti teorici sono sparpagliati in un’infinità di riviste, cataloghi, presentazioni e solo ora i suoi collaboratori sono riusciti a raccoglierli in una pubblicazione unitaria, un numero speciale della rivista «Il nuovo spettatore» edito dall’Archivio.