Il Parlamento europeo ha votato contro la deriva illiberale dell’Ungheria: bisogna aprire la procedura dell’articolo 7 del Trattato europeo, ha deciso. L’articolo 7 è uno di quegli strumenti di cui si ignora l’esistenza finché non diventa improvvisamente indispensabile e decisivo, ma a guardarlo bene quel che si può dire è che è molto macchinoso. Siamo al primo comma dell’articolo, che prevede appunto un voto parlamentare a Strasburgo, un voto del Consiglio europeo e rimanda poi al secondo comma che riapre il negoziato con il paese sottoposto alla procedura disciplinare, per poi ripassare dall’aula e dal Consiglio e infine arrivare al comma 3, che prevede un meccanismo sanzionatorio molto variabile.
Se avete letto «l’Europa sanziona l’Ungheria» è perché in questa vicenda le parole sono state usate in modo un pochino estremo: non c’è alcuna sanzione, forse non ci sarà mai. La Polonia, che è in mezzo alla stessa procedura per le stesse ragioni – deterioramento dello stato di diritto – sta negoziando abilmente per cercare di non avere troppe ripercussioni perché, come dice la leadership polacca, Bruxelles come bancomat non è affatto male. L’Ungheria è a uno stadio ancora precedente rispetto a quello polacco ma ha scelto una strategia un pochino diversa, pur avendo approfittato in modo altrettanto allegro del bancomat europeo: il premier, Viktor Orban, è andato a Strasburgo denunciando la «caccia alla streghe» messa in piedi dalle sinistre per punire l’Ungheria della sua politica immigratoria restrittiva. Le frontiere sono nostre e facciamo quello che vogliamo, ha detto Orban: non pretendo di farvi cambiare idea, so che avete già deciso, ma non trasformerò il mio Paese nella «patria dell’immigrazione».
Il premier ungherese è un ottimo oratore e un buon stratega, sa benissimo che la questione immigratoria spacca tutti i paesi europei e quindi sventola lo spauracchio dell’invasione che lui naturalmente non ha mai visto, avendo chiuso le frontiere e non avendo partecipato al programma di ricollocamento europeo. Ma le ragioni della procedura disciplinare hanno soltanto in parte a che fare con l’immigrazione: il report presentato dalla parlamentare verde olandese Judith Sargentini – è il testo discusso e votato al Parlamento europeo – indica sette punti critici sul sistema ungherese.
Il primo parla dell’immigrazione, degli abusi riscontrati dalle agenzie internazionali da parte della polizia di frontiera e delle regole molto restrittive per i richiedenti asilo. Ma è soltanto un punto. Gli altri hanno a che fare con lo stato di diritto ungherese, con la chiusura o l’acquisizione da parte di imprenditori vicini al governo dei giornali d’opposizione, del conflitto di interesse, della corruzione che ha riguardato specialmente i fondi europei e del sistema giudiziario. Il governo di Budapest ha pubblicato un «foglio informativo» che risponde alla relazione della Sargentini, ma la sua linea retorica è stata sempre: è una «vendetta» dell’Europa per il fatto che l’Ungheria non è stata solidale con la redistribuzione degli immigrati.
Durante il dibattito a Strasburgo però i parlamentari hanno cercato di non cadere nella trappola orbaniana: in discussione non c’era l’immigrazione, bensì la tenuta della democrazia in Ungheria, quindi i valori che tengono insieme il progetto europeo. Il cambiamento di posizione di Manfred Weber, capogruppo del Partito popolare europeo, è paradigmatico: Weber vorrebbe fare il presidente della prossima commissione europea e come prima cosa deve vincere con il Ppe le elezioni del maggio del prossimo anno. Per questo è sempre stato molto conciliante nei confronti dell’Ungheria e di Orban, che con il suo partito Fidesz è nel Ppe: Weber ha bisogno di tutti per poter avere successo.
Nella dialettica con i partiti più estremi, Weber, che è tedesco ed è della Csu bavarese, il partito gemello della Cdu merkeliana, ha sempre puntato sul compromesso: insieme siamo più forti, troveremo un modo per andare d’accordo nonostante le idee differenti. È con questo spirito che ha affrontato il dibattito al Parlamento europeo, ma mentre crescevano le pressioni e mentre si faceva largo l’idea che in gioco non ci fossero né esclusivamente la questione migratoria né la presunta caccia alla streghe di sinistra, Weber ha cambiato idea e ha deciso di votare per l’apertura della procedura disciplinare contro Orban. Il suo partito, la Csu, ha votato in modo diverso, così come molti altri, a partire dall’Italia, ma Weber ha deciso di mettere in primo piano i valori del progetto comunitario più che i suoi dettagli. Che è un po’ il senso delle prossime europee e dello scontro in atto: non stiamo discutendo di quanti migranti fare entrare né di che dogane riattivare, ma di quel che vogliamo dall’Europa di domani, dalla democrazia di domani.