L’inchiesta preliminare per un eventuale impeachment del presidente americano ha assunto la settimana scorsa nuove dimensioni: il braccio di ferro politico tra Donald Trump la Camera dei rappresentanti, in cui i democratici hanno la maggioranza, si è trasformato in crisi istituzionale. La Casa Bianca ha ordinato a Gordon Sondland, ambasciatore USA presso l’UE e personaggio chiave nella vicenda delle pressioni di Trump sul presidente ucraino Zelensky affinché indaghi sul suo concorrente alle presidenziali Joe Biden, di non testimoniare davanti alle commissioni del Congresso e ha annunciato che non collaborerà nell’inchiesta. Così facendo l’Amministrazione Trump lede il diritto del Congresso a indagare sulle azioni del presidente, un potere riconosciutogli dalla Costituzione. La questione – e per questo i giuristi negli Stati Uniti parlano di crisi istituzionale – è che «la Costituzione non fornisce una risposta definitiva a questo problema di fondo di governance» (così il professore di diritto costituzionale americano Noah Feldman sul «New York Times»), e il Congresso non ha gli strumenti concreti per imporre a Trump di collaborare, non può inviare degli agenti per arrestare il presidente.
La Camera dei rappresentanti, scrive ancora Feldman, ha una sola arma: aprire formalmente un’inchiesta per impeachment, ma anche in quel caso è dubbio che la Casa Bianca decida di collaborare. L’unica istanza che può dirimere la questione è la Corte suprema, dove c’è una lieve maggioranza di giudici di fede repubblicana, ma per evitare un verdetto partigiano in favore di Trump i giudici potrebbero decidere di non decidere. Si resterebbe nell’impasse, o nel caso peggiore avremmo una sentenza non al di sopra delle parti.
La Casa Bianca rifiuta di collaborare perché le commissioni del Congresso non intendono invitare testimoni a favore di Trump, ritiene quindi che l’inchiesta preliminare sia anticostituzionale. Ma secondo i giuristi americani questa motivazione non tiene, poiché la legge lascia libera scelta al Congresso su chi ascoltare. Piuttosto, la convinzione diffusa è che questa di Trump è una precisa scelta: di portare il conflitto fuori dalle aule del potere e farne un elemento della sua campagna per la rielezione a presidente (si vota nel novembre 2020). Nel ruolo di vittima che però non si arrende, il presidente può serrare le fila e galvanizzare i suoi, mantenendo al contempo sulla sua linea i deputati repubblicani al Congresso e intimorendo i deputati democratici più tiepidi sull’impeachment che l’anno prossimo a novembre vogliono essere rieletti, candidati in giurisdizioni che quattro anni fa votarono per Trump.
Vista anche l’insistenza della Casa Bianca di voler trovare informazioni compromettenti sul figlio di Joe Biden, in base a teorie che in passato erano emerse solo in frange complottistiche, senza alcuna base di credibilità, possiamo prevedere che lo scontro con la Camera dei rappresentanti e la battaglia elettorale saranno condotti senza esclusioni di colpi, con vagonate di fango, incuranti degli equilibri istituzionali che sostengono lo stato di diritto americano. Se anche Trump dovesse risultare perdente, i danni non saranno solo momentanei, ne soffrirà la credibilità del sistema democratico statunitense e questo potrebbe spalancare le porte a futuri presidenti ancora più disruptive di Trump. Ma anche i suoi avversari non stanno fermi: venerdì sono stati arrestati tre personaggi legati all’Ucraina e vicini all’avvocato di Trump Rudolph Giuliani, vero regista della vicenda USA-Ucraina, per violazioni della legge sui finanziamenti elettorali – un pretesto per poterli poi interrogare sul Kievgate?