Oggi mi sento cicala, anzi, formica

/ 06.08.2018
di Maria Bettetini

Abbiamo mangiato un arancino (un’arancina?) di riso sul muretto, di fronte al mare. Molto romantico, ma poi l’attenzione si è spostata su quei tre-quattro granelli di riso che ci erano caduti per terra. Alcune formiche li stavano accerchiando. Prima corrono come alla cieca, forse sentono il profumo del riso allo zafferano. Poi una di loro quasi sbatte contro il chicco. Lo afferra e prova a trascinarlo, le zampette tremano per lo sforzo, il corpo si contrae, ce la fa. Con grande fatica, la bestiola issa per dirupi e colline l’enorme peso (è in pianura, ma il pavimento di terra presenta per la piccina ostacoli altissimi, un sasso, un filo di paglia, un avvallamento). Nessuno corre in suo aiuto, all’inizio, ma poi ecco una, due formiche unirsi ai suoi sforzi, fino a portare il prezioso chicco di riso sui margini di un piccolo foro e a buttarlo dentro quello che pensiamo sia il formicaio. Finita l’operazione, via di corsa in cerca di altro cibo, senza un attimo di sosta, come non ci fosse un domani, come se a breve finissero le scorte in tutto il mondo. Con un colpo di tacco potrei porre fine alle formiche, ai chicchi di riso e a parte del formicaio (si sa che scavano molto in profondità). Ma loro non lo sanno, sanno solo che si devono affannare per riempire la dispensa.

Le loro amiche, le cicale, intanto friniscono beate, col delizioso fragore delle ore più calde della stagione calda. Loro sanno solo di doversi riprodurre, quindi i maschi suonano all’impazzata lo strumento che si portano addosso, composto da due muscoli che schioccano provocando una vibrazione, una sacca d’aria, due timpani che moltiplicano per venti la forza del suono. Le percussioni di un’orchestra sinfonica in mezzo centimetro. Le femmine si fanno notare, vezzose, solo sfregando le ali e producendo un suono leggero, come lo schiocco di due dita. Cercano il maschio che meglio canta. Il cibo? Le cicale si nutrono della linfa degli alberi, soprattutto pini e olivi, della cui scarsità non c’è da preoccuparsi. Aveva torto Esopo a farle rimproverare dalle alacri formiche, perché entrambe le specie non fanno altro che collaborare alla loro sopravvivenza nel modo che è loro proprio. Freneticamente. Sembra che tutte abbiano in mente la poesia di Ungaretti, Soldati: Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie. Ungaretti la scrisse nel luglio del 1918, mentre era soldato di trincea sul Carso, dove davvero bastava alzare la testa di pochi centimetri in più o accendersi una sigaretta per venire fulminati da un cecchino. Ma sono parole che si sono sempre intese a descrivere la precarietà della vita di tutti, militari (che era poi il titolo originale della poesia) e civili, umani o animali.

La differenza è che noi lo sappiamo, sappiamo di essere attaccati alla vita solo dal gambo leggero di una foglia. Lo scrisse già Omero, che paragonò le foglie d’autunno alle vite umane proprio nell’unico momento di pace e amicizia dell’Iliade, ossia lo scampato duello tra Glauco e Diomede, che in nome di antiche ospitalità non combattono e arrivano a scambiarsi le armi in reciproco dono. Ne dissero anche Virgilio e Dante, paragonando alle foglie d’autunno cadute la folla di dannati sull’Ade (o sull’Acheronte) in attesa di essere trasportati nei gironi infernali corrispondenti. Conosciamo dunque la leggerezza del legame che ci tiene ancorati alla vita, e se non la conoscessimo ne avremmo continui richiami. Persone che ci lasciano all’improvviso, uomini e donne belli giovani e famosi che nonostante questo vengono colpiti da una disgrazia, vicende storiche, narrazioni familiari. Il nostro stesso corpo ci parla: ogni capello caduto è perduto per sempre, nessuna miracolosa lozione, nessun trapianto potrà mai restituirci proprio lui. Eppure noi viviamo come se fossimo eterni. Usiamo dell’intelligenza per rimuovere, se siamo più simili alle formiche riempiamo il nostro granaio – o conto in banca o proprietà immobiliari – fino a farlo scoppiare, se ci riconosciamo nelle cicale, godiamo di tutto quello che la vita può offrirci, proprio come se non ci fosse un domani.

Non importano, in questo caso, le quantità: il personale formicaio può essere costituito da un tozzo di pane e due soldi, ciò che conta è il modo in cui viene gestito, come nostro personale granaio; lo stesso per la vita della cicala, che può bearsi di uno yacht a tre piani (sì, quelle specie di condomìni che vanno sul mare) come di una bottiglia di birra di scarsa qualità. Il guaio è che il domani forse ci sarà, e pagheremo delle conseguenze; forse non ci sarà, e pagheranno le conseguenze i nostri cari, e noi chissà, sulle rive dell’Ade o Acheronte. Mentre le formiche hanno raccolto ogni piccolo granello di riso, mentre le cicale friniscono con passione, anche se io sono in vacanza a godere sole mare e tutto il resto spedisco questa postilla, perché oggi sono cicala e sempre oggi formica.