Non prendiamocela con Zuckerberg

/ 28.05.2018
di Paola Peduzzi

Mark Zuckerberg ha imparato presto la sua parte in questo nuovo spettacolo in cui gli è stata riservata la parte del cattivo. Il ceo di Facebook è mite, docile, furbissimo: si presta agli «interrogatori» di gruppi di politici tendenzialmente innocui, evita quelli più ostili. È stato al Congresso americano, è stato all’Europarlamento, non vuole andare ai Comuni inglesi, dove i metodi sono storicamente più brutali – i parlamentari britannici sono abituati al Question Time del primo ministro, un’arena in cui se non sai difenderti, rischi di soccombere. Ogni volta Zuckerberg recita lo stesso testo: un po’ di scuse per il mancato controllo, qualche spiegazione sul caso Cambridge Analytica che ha mostrato in modo più evidente quanto sono preziosi i dati raccolti da Facebook, qualche ammissione sulle ads russe che hanno contaminato le campagne elettorali dal 2016 in poi (ma ora sono regolamentate). Poi l’interrogatorio finisce e rimane quel senso di occasione perduta, che è poi l’obiettivo originario di Zuckerberg.

Il Parlamento europeo in questo senso ha fatto un capolavoro. Ha chiesto al ceo di Facebook di presentarsi, ha ottenuto finalmente un sì, ha organizzato una diretta per poter far vedere al mondo l’interrogatorio e poi ha mandato a fare le domande i capigruppo, che hanno sparato tutte le cartucce all’inizio lasciando così a Zuckerberg la possibilità di rispondere solo a quel che voleva lui, tralasciando ogni pericolo o anche solo ogni dettaglio scivoloso. I capigruppo si sono subito lamentati, non era così che doveva andare, ma per ora resta loro soltanto la nuova regolamentazione europea sulla privacy che dovrebbe in qualche modo dare senso a questa gita europea di Zuckerberg. Assieme all’incontro con Emmanuel Macron il giorno successivo, assieme a molti leader della Silicon Valley, che è forse il vero motivo per cui il ceo di Facebook si è prestato allo show di Strasburgo.

Fa una certa impressione vedere fuori dai palazzi della politica delle proteste con le maschere di Zuckerberg, come una volta (ancora, ma pochissimo) c’erano quelle dei «criminali di guerra» Bush e Blair. Il traffico di dati personali è uno degli affari più redditizi e pericolosi di questa stagione, e il desiderio di protezione è alto: maggiori regolamentazioni sono necessarie. Ma il problema non riguarda – ahinoi – soltanto Facebook o soltanto la presunta mancanza di responsabilità di Zuckerberg, quanto piuttosto la leggerezza con cui tutti noi abbiamo alimentato questo pericolo. Ora ci arrivano molte notifiche per rivedere gli accordi che abbiamo preso con le aziende più grandi della rete, quei «termini e condizioni» che di solito saltiamo e accettiamo senza troppi convenevoli e a cui oggi prestiamo (forse) più attenzione. Ma il business di Facebook e degli altri si fonda sulla nostra voglia di mostrarci, di interagire, di commentare, di farci vedere più originali, più unici addirittura. Non è, questa, un’ambizione recente: Tom Wolfe scrisse nel 1976 Il decennio dell’io, un piccolo saggio pubblicato sulla «New York Review» che raccontava, o meglio intercettava, il momento in cui tutti ci buttammo a capofitto sull’unico tema che ci interessava veramente: l’io, noi stessi. La cura di sé, la propria immagine, le proprie ambizioni (anche i propri tabù: il primo capitolo si intitola «Io e le mie emorroidi») erano diventate prerogative di tutti, e ognuno voleva trovare il proprio spazio per finalmente farsi vedere, farsi notare. I social network hanno fornito la piattaforma perfetta perché quel decennio e quell’io potessero esprimersi al meglio: una volta raccolte le informazioni necessarie, che noi abbiamo dato con grande entusiasmo perché proprio questo volevamo fare, parlare di noi, le aziende tecnologiche si sono attrezzate per prenderci per mano e accompagnarci un po’ ovunque. La casella di posta si è messa a segnalarci le email che ritiene più importanti (anche se non le avevamo lette); i siti di e-commerce ci dicono i prodotti che possono interessarci (e lo fanno con una precisione quasi spaventosa), e così via. C’entra sempre di più anche l’amore, visto che Facebook, per quanto in crisi, ora vuole vendersi anche come il posto in cui si trova l’uomo della vita, quello per sempre, non l’avventura di una sera.

Il modello di business di Facebook si fonda su di noi: per questo Zuckerberg si è fatto così docile e furbo, non può permettersi che noi ci stufiamo di avere un amico del cuore invisibile che sa tutto di noi e ci tiene per mano. Questo non significa che l’assenza di responsabilità – trafficare con i dati, rivenderli – è giustificata, ma resta il fatto che Zuckerberg conta sul fatto che no, non ci stuferemo.