Anno nuovo, parole (semi)nuove. Da tener d’occhio con attenzione. Per capirle, ma anche per smontarle e smascherarle. La principale è «post-verità», espressione che già di per sé insospettisce come un pacco inatteso. Già definire il concetto di «verità» – per limitarci al giornalismo – è impresa tutt’altro che facile, figuriamoci se poi ci anteponiamo «post-», prefisso tanto invitante quanto ambiguo. Si ricorderà quante diatribe sollevarono, a suo tempo, vocaboli composti come «post-industriale» o «post-moderno». Ma ora, con post-verità, siamo di fronte ad un ermafrodito lessicale che sfiora l’assurdità. Che non solo non spiega ma complica; che non solo non rasserena, ma turba. Siamo di fronte ad una nuova guerra semantica scatenata dalle forze mefistofeliche della Rete?
Gli esperti ci dicono che siamo entrati in una nuova era, l’era delle «fake news», delle false notizie che diventano virali sfruttando lo straordinario potere di Internet, ormai presente ovunque, in tutti i dispositivi che accompagnano e scandiscono le nostre attività quotidiane. Costruire bufale e metterle in circolazione è diventata la missione primaria per molte aziende che si muovono nell’ombra, mosse da burattinai invisibili, automi che si auto-riproducono al servizio di poteri opachi. Le ultime elezioni americane hanno rappresentato un primo collaudo di queste nuove forme di manipolazione della pubblica opinione.
Le false notizie sono antiche quante le notizie stesse. I giornali, ad esempio, sono stati associati alla menzogna fin dalla loro comparsa: meglio non leggerli, perché raccontavano solo frottole. «Io sono persuasissimo – osservava il redattore del “Popolo e Libertà” nel 1912 – che i giornali che si occupano di politica internazionale sono fatti apposta per stamparci tutto ciò che di men vero esiste in questo mondo guerrafondaio...». In seguito però il sistema si è perfezionato, secernendo i necessari anticorpi all’interno della dialettica democratica. Si è capito che la pluralità delle testate era un valore da tutelare e da promuovere, fondamentale per il buon funzionamento di una democrazia. La radio prima e la televisione poi non sovvertirono queste regole del gioco, ma le arricchirono con nuove voci e nuovi approcci, in un’ottica di servizio pubblico. Nato come propagandista di parte, e magari fazioso, anche il giornalista «aveva imparato il mestiere», dandosi una deontologia, un codice di comportamento e anche delle istanze di verifica. Chi violava platealmene le regole veniva espulso dalla corporazione.
Vero è che nel nostro cantone il giornalista non è mai stato considerato un vero e proprio mestiere, al pari del docente, del medico, dell’ingegnere. La storia del giornalismo locale – come dimostrano le ricerche di Enrico Morresi – è stata fatta soprattutto da dilettanti appassionati, militanti dell’ideale, volonterosi sottopagati; da penne anche brillanti ma con la tessera di partito in tasca. Si poteva essere cronista e deputato in Gran Consiglio, direttore di testata e presidente di una formazione politica, di un’associazione o di un sindacato. Difficile credere che in situazioni simili il sacro principio dell’«obiettività dell’informazione» fosse in cima alle preoccupazioni degli attori.
Specifici corsi professionali e università (scienze della comunicazione) hanno trasformato, elevandolo, il profilo dei giovani candidati: fatto estremamente positivo, che ha riportato riconoscimento sociale e dignità nelle redazioni.
Purtroppo ora tutto questo sta nuovamente svanendo nel cestello della centrifuga mediatica, una gigantesca macchina i cui impulsi giungono da galassie remote. Chi produce e diffonde notizie è sempre più lontano e sempre meno identificabile, non persone in carne ed ossa ma «sistemi» anonimi fluttuanti nell’etere.
Finora, nel nostro piccolo mondo, un servizio pubblico articolato per regioni linguistiche ha garantito un’informazione se non obiettiva perlomeno onesta, in grado di auto-correggersi in caso di errori ed omissioni. Chi propone di smantellarlo ha probabilmente in mente un modello diverso, alternativo, che non è necessario sottoporre al controllo dei canali pubblici; un modello che già vediamo all’opera ogni giorno nel regno miasmatico della «post-verità», con il cittadino ridotto a cliente-consumatore. In una parola, a suddito.