Nei flutti europei senza timoniere

/ 17.12.2018
di Peter Schiesser

Ancora una volta, prendendo soltanto atto ma senza parafare l’accordo istituzionale negoziato con l’Unione europea, il Consiglio federale delega ad altri la responsabilità di dirigere la politica estera. Lo aveva già fatto con l’iniziativa dell’Udc contro l’immigrazione di massa, lasciando alle Camere federali il compito di togliere le castagne dal fuoco (le quali vararono un anno fa una legge di applicazione che non ledesse gli accordi bilaterali con l’Ue, al prezzo di annacquare di molto l’iniziativa). Lo rifà oggi aprendo un’ampia consultazione interna fra soggetti politici, economici e istituzionali sull’accordo concluso, in un momento estremamente delicato per le relazioni fra la Svizzera e l’Unione europea (vedi Rigonalli a pagina 26). Una mancanza di leadership sconcertante: come sarà mai possibile vincere una votazione in parlamento e poi alle urne su un tema così delicato se manca una convinzione salda nel Consiglio federale?

Conosciamo il segretario di Stato Roberto Balzaretti quel tanto da poter credere che lui e la sua squadra abbiano tratto il massimo dai negoziati con la Commissione europea. Con il tribunale arbitrale e dei compromessi sull’attuazione delle misure di accompagnamento alla libera circolazione in particolare, Bruxelles ha concesso alla Svizzera più di quanto volesse fare fino a pochi mesi fa. Ci sarebbe da stupirsi se Bruxelles accettasse di riaprire il negoziato qualora la consultazione interna in Svizzera generasse altre richieste. Il Consiglio federale si è dunque messo in un bel pasticcio.

Ma come si è giunti a questa situazione? L’errore tattico di Schneider-Ammann e Cassis, forse commesso ingenuamente, di riflettere ad alta voce su una possibile riformulazione delle misure di accompagnamento della libera circolazione (seppur solo nella forma e non nella sostanza), si rivela essere stato capitale: allora i sindacati di sinistra boicottarono il dialogo nazionale iniziato da Schneider-Ammann, si spera forse di ovviare all’errore invitandoli a esprimersi a posteriori, ad accordo negoziato? Molto difficile. Una simile consultazione serve prima, non dopo quando un accordo è già negoziato, soprattutto se l’impressione è che non ci siano margini di manovra (tenta di fare la stessa cosa la premier britannica Theresa May, ma c’è da dubitare che vi riesca).

La conclusione che si può trarre è che il Consiglio federale è profondamente diviso sulla questione dell’Accordo istituzionale. Sono contrari i due consiglieri federali Udc e i due socialisti. Il governo sembra dunque poco consapevole della posta in gioco: si sta dimenticando che senza un accordo istituzionale la via bilaterale andrà atrofizzandosi, esponendo la Svizzera a complicazioni e ritorsioni, in futuro? Finora il messaggio del Consiglio federale è stato che un accordo sarà siglato solo se soddisfacente per la Svizzera (un’ovvietà), ma per giudicare se è favorevole per il paese è stato a sufficienza valutato quanto sfavorevole sarebbe non averne alcuno?

Il governo si dice convinto di riuscire a concludere un accordo anche fra qualche anno, però i segnali che invia Bruxelles vanno in un’altra direzione. L’equivalenza della Borsa svizzera, per esempio, verrà prolungata di soli sei mesi, ma non c’è dubbio che in caso di stallo sull’accordo istituzionale la Svizzera dovrà adottare il piano B definito per non penalizzare la Borsa svizzera. In seguito, verosimilmente, le Camere federali boccerebbero il nuovo «miliardo di coesione» per l’Ue , come già minacciato. Ma davvero qualcuno crede che in un clima di ripicche e ritorsioni sarà più facile ricreare un clima sereno fra la Svizzera e l’Unione europea?